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Obama come Clinton costretto a collaborare

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diGIANCARLO LOQUENZI Nel suo libro di memorie, My Life, Bill Clinton dedica un ampio capitolo alle catastrofiche elezioni di mid-term del 1994. Clinton registra incredulo il risultato del voto: «L'8 novembre, con la perdita di 8 seggi al Senato e 54 alla Camera, subimmo la più cocente sconfitta del nostro partito dal 1946». La sconfitta di Obama è pressoché identica: 6 seggi persi al Senato e 60 alla Camera. Clinton nel suo libro avanza subito un'analisi del risultato: «la gente era nauseata dalla polemiche di Washington, si direbbe abbia pensato che un governo diviso ci avrebbe costretto a lavorare assieme». Con il senno di poi si può dire che quella valutazione a caldo fosse in gran parte indovinata. Clinton infatti ne trasse immediate conseguenze quando, in occasione del successivo discorso sullo Stato dell'Unione, nel gennaio dell'anno successivo, spalancò le braccia alla collaborazione con i repubblicani su tutti i fronti più caldi del momento: dai tagli fiscali, alla riforma sanitaria, fino alla politica estera. Il no dei Repubblicani, voluto soprattutto da Newt Gingrich, fu uno degli elementi decisivi che portò, due anni dopo, Bill Clinton a essere rieletto trionfalmente per il suo secondo mandato. Oggi molti segnali dicono che Obama sia intenzionato a fare una simile mossa ma sin da subito. Lo si è visto bene nella affollatissima conferenza stampa convocata ieri nella East Room alla Casa Bianca. «Un solo partito non può risolvere i problemi del paese, dobbiamo lavorare insieme», ha detto tra l'altro il Presidente. Ma tutto il discorso di Obama è stato una apertura significativa ai repubblicani per renderli corresponsabili dell'azione (o dell'inazione) nei prossimi due anni. Mettendoli così di fronte al dilemma se passare agli occhi dell'opinione pubblica come il partito del «no» e dell'ostruzionismo, per mantenere alto il livello dello scontro in vista delle presidenziali del 2012; o accettare la mano tesa del presidente e guadagnare crediti sul piano dell'affidabilità e del senso dello Stato in una situazione di emergenza economica e sociale. Obama non avrà certo intenzione di farsi paralizzare per due anni dai veti repubblicani e per questo è disposto anche a pagare un prezzo alto. Lo ha già anticipato Henry Reid, il leader della maggioranza Dem al Senato quando ha detto che si possono aprire spazi di revisione della riforma sanitaria voluta da Obama. Ma anche la questione dei tagli fiscali dell'era Bush, in scadenza a fine dicembre, che i repubblicani vorrebbero veder rinnovati per tutti, potrebbe entrare nel grande scambio. L'incognita in questo contesto è l'ingresso del movimento dei Tea Party sulla scena washingtoniana e fino a che punto sapranno condizionare il Gop con la loro intransigenza. E a sentire le prime dichiarazioni di Jim DeMint, il campione dei Tea Party al Senato, c'è poco da sperare in una svolta bipartisan: «I rappresentanti dei Tea Party sono stati mandati a Washington per salvare il paese non per essere cooptati nel club – ha detto DeMint ai neo-eletti – Mettete i vostri guantoni da box la battaglia comincia oggi». Obama oggi è certamente in difficoltà, indebolito e in qualche modo «riumanizzato» dalla batosta. Ma è pur sempre il presidente degli Stati Uniti e un commander in chief. I repubblicani vittoriosi al Mid-Term sono invece senza un leader riconosciuto, condizionati dal successo dei Tea Party e con due anni davanti per inventarsi un nuovo mestiere da opposizione che governa.

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