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La svolta di Gianfranco Ora si torna all'antico

Gianfranco Fini

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Che fine ha fatto il Fini che parlava di una destra moderna? Che fine ha fatto il Fini che voleva andare oltre i confini tradizionali del Pdl, quello che voleva rappresentare l'Italia del futuro? Quello che insomma parlava di voto agli immigrati, di libertà di fecondazione assistita, che difendeva la pillola abortiva e condannava anche la Repubblica sociale come il male assoluto? Il quadro politico è cambiato. Fini è in campagna elettorale interna. Accantona i temi che dividono, riveste i panni del leader della destra tradizionalista. Parla di legge e ordine. Di legalità. Si riappropria della figura di Paolo Borsellino, si sofferma sulla coesione nazionale. Torna a parlare al suo ex popolo, quello di An. E non va più a braccetto con Mario Capanna o con i Radicali, non si fa più battere le mani dal Pd e neppure si fa vedere a cinguettare con Massimo D'Alema. Resta un solo asse forte: quello con Giorgio Napolitano. Eppure era soltanto il 6 maggio scorso quando il presidente della Camera rilanciava sulla cittadinanza breve e auspicava una decisione entro il mese succcessivo ricordando come «se si trovano muri invalicabili il rischio è lo scontro oppure il richiamo dei cattivi maestri» e auspicava «una cittadinanza che non valuti il mero scadere del tempo ma un percorso virtuoso di adesione a valori». E il 23 marzo precedente, a pochi giorni dal voto, era tornato a ribadire nella sede di Famiglia Cristiana (un giornale che ha solitamente criticato il governo sulla politica per l'immigrazione): «Si può discutere sui sette, dieci e dodici anni per ottenere la cittadinanza, ma almeno lo si può fare subito per i bambini». E per spiegare meglio il concetto aveva sottolineato: «È una questione di civiltà. Il concetto di Patria va pensato in una logica multietnica». Già, Italia multietnica. Appena un mese prima era tornato a beccarsi con Berlusconi sul tema immigrazione. Il Cavaliere aveva attaccato la sinistra accusandola di voler «spalancare le porte ai cittadini stranieri», pensando che «un'invasione di stranieri» possa cambiare «il peso del voto che ha visto la vittoria dell'Italia moderata». E Fini piccato aveva risposto: «La mia opinione non coincide al 100% con quella dle presidente del Consiglio e questo è notorio», insistendo sul fatto che lui invece è a favore del voto per gli immigrati. Ma era stato l'autunno la stagione calda del Fini-pensiero. Parlando al centro Semina di Torpignattara a Roma davanti a una cinquantina di ragazzi bengalesi e cinesi aveva vestito i panni del progressista anche nel linguaggio: «Qualche volta vi pesa essere qui? C'è qualcuno che ve lo fa pesare? O qualche volta che qualche stronzo che dice qualche parola di troppo?». Ancora prima erano stati altri termini e altri temi a dominare il pensiero finiano. Sul finire dell'estate il dibattito stavolta era sul biotestamento. Al Senato era stato appena approvato un testo che di fatto prevedeva il divieto di interruzione di cure e idratazione, Fini invece era (ed è) su posizioni diverse. Chiedeva infatti l'approvazione di una soft law che ponesse soltanto i limiti da tutti condivisi, in pratica il no all'eutanasia e all'accanimento terapeutico. Partecipando alla festa dell'Unità a Genova aveva espresso la volontà di «correggere alla Camera» la legge: «Non si tratta di favorire la morte ma di prendere atto dell'impossibilità di impedirla». E si era anche espresso contro l'indagine conoscitiva sulla pillola Ru486 decisa dal Senato su spinta di Maurizio Gasparri. Era l'8 agosto di un anno fa. Sembra passata una vita.

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