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Pdl, qui le firme ci sono

Renata Polverini

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Partiamo dai fatti: almeno qui a Il Tempo le firme ci sono. L'appello «fateci votare Pdl» sta riscuotendo un successo che va al di là di ogni mia previsione. Una valanga di lettere, fax e mail che testimonia l'affetto dei lettori per il nostro giornale e mi ispira una serie di riflessioni su cosa sia oggi la politica. Il primo insegnamento che viene da questa iniziativa è che quando il cittadino è sollecitato a intervenire nel dibattito pubblico, non esita a far sentire la sua voce. Ci sono quelli che applaudono, quelli che dissentono, quelli che vogliono capirne di più. A tutti questo giornale cerca di offrire uno spazio aperto, un'arena nella quale esprimere le proprie opinioni. Il Tempo può e deve essere una comunità di lettori intelligente, critica, coraggiosa e non conformista. Un giornale con questa storia e tradizione deve essere all'altezza della missione. C'è una voglia di partecipare che stiamo toccando con mano. Non coinvolge solo i cittadini che guardano al centrodestra come riferimento ideale di valori, ma l'intero sistema politico, i partiti prima di tutto. Quando ho lanciato questa iniziativa, ho pensato che il vero nocciolo della questione delle liste elettorali escluse, sia proprio quello della partecipazione. La storia della mancata presentazione della lista del Pdl nel Lazio e il caos delle firme della lista Formigoni in Lombardia sono due episodi esemplari: hanno dimostrato come i partiti abbiano bisogno - almeno su questo punto - di tornare alle origini e darsi un'organizzazione. Per molti anni ci si è illusi che la sola presenza di un leader carismatico come Silvio Berlusconi potesse bastare ad assicurare al Pdl un futuro. Al centro e in periferia ci si è cullati con la certezza del «tanto ci pensa Silvio» ma questo modo di pensare oggi mostra la corda. Provo a spiegarvi perché o il Pdl fa un grande salto organizzativo, una rivoluzione radicale dell'assetto territoriale e del rapporto con gli elettori, o rischia di fare crac. Fin dalle sue origini il centrodestra italiano è stato plasmato sulla figura del Cavaliere. Uno straordinario organizzatore di campagne elettorali, un comunicatore impareggiabile, ha condotto prima Forza Italia e poi il Pdl al governo del Paese. Finché il partito era un movimento d'opinione che si mobilitava per votare il Parlamento non ha avuto grandi problemi a gestire il rapporto tra eletti e territorio. Quel partito è rimasto a lungo «allo stato nascente», lontano anni luce dal modello novecentesco rappresentato dalla Dc e dal Pci. Forza Italia era una novità assoluta nel panorama politico. Non a caso era un partito capace di vincere le elezioni politiche ma perdente nei Comuni, nelle Province, nelle Regioni. A livello locale la vecchia macchina del Pci continuava a dominare il territorio e macinare voti. Ma a un certo punto nel meccanismo perfetto di Botteghe Oscure s'è inserito il sassolino del Cavaliere. E l'ingranaggio s'è rotto. Le cause non stanno soltanto nella drammatica crisi della sinistra europea. L'Italia è cambiata, i partiti ancorati alla storia del secolo scorso sono rimasti con le lancette dell'orologio ferme. L'egemonia culturale della sinistra è andata in frantumi, sostituita da nuovi modelli sociali, stili di vita e consumo di cui Berlusconi è stato - piaccia o meno - un interprete senza pari. Il berlusconismo è un fenomeno pre-esistente a Berlusconi: il Cav ha avuto il merito di interpretare i bisogni e le aspirazioni di quella maggioranza silenziosa e operosa. Crollato il moloch progressita, Forza Italia, An e poi il Pdl hanno cominciato a conquistare seggi anche a livello locale. Il problema è che un partito privo di organizzazione territoriale a quel punto s'è trasformato in un suk dove ogni ras del borgo si sente un onnipotente perché la rete di controllo e selezione non esiste. Risultato: il caos organizzativo, lo sbarco in politica di personaggi improbabili, braccia destinate all'agricoltura (e forse neppure a quella, troppo nobile e faticosa) che si sono trasformate in Machiavelli all'amatriciana. I fatti di questi giorni sono il picco di un fenomeno che viene da lontano. Il guazzabuglio delle liste, delle firme, degli incapaci in tribunale, è il sintomo che il Pdl è troppo ramificato per esser gestito senza una selezione severa della classe dirigente. É giunto il momento di rimediare. La valanga di messaggi che abbiamo ricevuto sono una testimonianza tangibile di quanto scrivo. Tanti nostri lettori sono indignati per la gestione dilettantesca delle liste, al punto da preferire l'esclusione dal Lazio piuttosto che vedere certe sagome ai nastri di partenza. Posso capirli. Ma qui c'è in gioco un tema più alto dei destini di un paio di mestieranti della politica. Bisogna assicurare la partecipazione democratica, dare la possibilità agli elettori del Pdl di votare per il proprio partito. Il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha rimandato correttamente ogni decisione alla magistratura ma ha aggiunto che «c'è il timore sulla piena rappresentanza». Piena, non dimezzata.

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