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(...) in puro stile «er Monnezza», il ruolo di brutti, sporchi e cattivi è toccato alla sponda capitolina dello scandalo.

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Eppureil meccanismo di fondi illegali per oltre due miliardi, e un'evasione fiscale da almeno 337 milioni, secondo i magistrati sarebbe stato ideato e gestito da Milano. Due pesi e due misure? La presenza, per quanto marginale, della politica? In attesa di sviluppi è molto probabile che Roma si prenda, per così dire, una rivincita. Che riguarda il ruolo di Telecom e le sue ricadute future. Se infatti sotto i riflettori è finita soprattutto Fastweb, la più esposta finanziariamente sembra Sparkle, la controllata di Telecom che fornisce il routing internazionale attraverso la rete in fibra ottica Seabone, una «spina dorsale sottomarina» acronimo di South East Access Backbone. Chi ha assistito al Consiglio d'amministrazione del 25 febbraio, che per decisione di Franco Bernabè ha rinviato l'approvazione dei conti a fine aprile, riferisce tra le quinte di scenari assai preoccupati, ovviamente smentiti da Bernabè nella conference call. Il primo problema, immediato, è l'incidenza di Sparkle sui conti Telecom, che pare assai superiore del danno ricevuto da Fastweb. Il gruppo ammette un effetto del 2-3 per cento sul bilancio complessivo. Stime ufficiose indicano però, per Telecom, un effetto di circa il 10 per cento. Il secondo problema è già emerso, ed è il repentino raffreddamento degli spagnoli sul progettato (da Bernabè) matrimonio con Telefonica, che pareva l'unica soluzione per dare una strategia al nostro gruppo telefonico, e soprattutto garantirgli quella stabilità finanziaria che da anni è una chimera. I dati presentati giovedì scorso confermano che a fronte di margini e ricavi stagnanti il macigno di Telecom si chiama debito: 34 miliardi nel 2009 (con 500 milioni di «ottimizzazioni contabili» sul 2008) per ricavi di 27,18 miliardi, in calo del 5,6 per cento. Cioè debito stabile e fatturato in continuo calo: un rapporto che rischia di diventare insostenibile. Come uscirne? Se sfumano le nozze con Telefonica, il «piano B» secondo Bernabè è costituito dalle dismissioni di Telecom Italia Media (l'azienda de La 7), e delle controllate sudamericane. Ma il Brasile è l'unica area in crescita (più 9,6 per cento), e pesa ormai per il 20 per cento nelle attività di Telecom. Può il gruppo privarsene per concentrarsi sul core business italiano, gravato di debiti e dunque con le mani legate per investimenti che nel prossimo futuro si presentano ingentissimi? Proprio per questo, prima dello scandalo, si era ipotizzata un'altra via: lo scorporo e l'acquisto da parte dello Stato della rete fissa, cioè dell'hardware, lasciando alla Telecom la mission del software, dei servizi, e della competizione con la concorrenza. Uno scenario che non ha un particolare colore politico: era stato concepito da Angelo Rovati, ex consigliere economico di Romano Prodi a Palazzo Chigi. Quando Marco Tronchetti Provera lo seppe, tuonò contro l'«esproprio». Rovati si dimise per proteggere Prodi, del quale è tuttora uno dei più ascoltati consiglieri. Alle stesse conclusioni è arrivato il governo di centrodestra che ha affidato a Francesco Caio, uno dei massimi esperti mondiali di telecomunicazioni, una consulenza sul futuro della banda larga, necessaria a sviluppare i nuovi business multimediali. È evidente che esistono interessi corposi da parte di chi a quei business punta, Mediaset e Rai in prima fila, ma è altrettanto evidente che l'Italia non può restare ulteriormente indietro rispetto al resto d'Europa. Oggi dieci milioni di famiglie non possono essere raggiunte dalla multimedialità: servono secondo Caio 10 miliardi d'investimenti in cinque anni, e la Telecom non li ha. Né può indebitarsi oltre, in pieno riflusso dai bond ritenuti rischiosi (ha la tripla B), e quindi cari per l'azienda. Lo scorporo della rete, non con esproprio ma con un intervento magari della Cassa depositi e prestiti, appare l'unica uscita, anche per rilanciare la Telecom come azienda di servizi. E restituirebbe alla telefonia e alle comunicazioni quella centralità romana che aveva funzionato egregiamente ai tempi della Stet di Ernesto Pascale e della Sip di Vito Gamberale. Eppure quei manager ed i loro predecessori avevano portato la telefonia italiana – con un ricco indotto di ricerca basato nel Lazio – a livelli di eccellenza mondiale: la prima teleselezione totale, le sim card per i cellulari, le schede prepagate sono idee «romane» che hanno fatto poi la fortuna della concorrenza straniera. La privatizzazione prodiana con «noccioli» e «nocciolini» affidati a banche e industrie del Nord, il trasferimento della ex Stet a Milano, la vendita a Colaninno e poi a Tronchetti, il ritorno di Bernabè, hanno finora prodotto solo debiti, zero soddisfazioni per i piccoli azionisti e soprattutto pongono il Paese di fronte a una scelta strategica. Se vogliamo considerare la rete telefonica un'infrastruttura primaria, come quella elettrica, ferroviaria, aerea, non c'è che da seguire gli esempi di Terna, Ferrovie o Enav, separando l'hardware dal software. Riportando a Roma – dove sono basate le Authority di controllo – sede e management della rete. Per il quale è già ovviamente pronta una lista di candidati più o meno plausibili: si va dallo stesso Caio al dg della Rai Mauro Masi, fino al governatore uscente del Veneto Giancarlo Galan. Ma il problema non è certo di soddisfare appetiti personali, né solo di salvare la Telecom. È invece di stabilire se la tutela delle comunicazioni rappresenta una priorità nazionale. In queste ore tra gli esperti ed i politici avanza una riflessione bipartisan, della quale si parlerà dopo le Regionali. Che riguarda non solo gli investimenti, ma anche la sicurezza. Se chi deve occuparsi di traffico telefonico risulta permeabile alla criminalità organizzata, italiana e mondiale, la rete va sviluppata e protetta – come accade all'estero – sotto un rigoroso controllo pubblico. Come tutte le altre infrastrutture sensibili. Un ruolo che potrà giocare solo Roma; e non certo per questioni di campanile. Marlowe

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