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Mille anime che non sanno neanche come chiamarsi

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seguedalla prima (...) dei valori salutano i presenti oscillando tra un burocratico «delegati e delegate» e un onnicomprensivo «uomini e donne». Nessuno stupore, il «postideologismo» è uno dei refrain più gettonati, sopra e sotto il palco. Destra e sinistra valgono come su e giù, per tutti gli orfani di tutte le chiese (ex comunisti, democristiani, socialisti, repubblicani, liberali, perfino ex missini) qui convenuti, oltre 3600 persone riunite in un mega albergo sulla Roma-Fiumicino. C'è aria di festa, scontata l'elezione domenica del leader carismatico e fondatore dell'Idv, Antonio Di Pietro. Una seconda mozione, dell'onorevole Francesco Barbato, punta su una maggiore trasparenza e democrazia interna. Bazzeccole, qui come altrove. In platea, sarà forse la sindrome del primo giorno, dominano i capannelli, meglio se di identica estrazione territoriale. Un logico e naturale passaggio, per un partito che in un solo anno solare - primavera 2008, primavera 2009 - ha raddoppiato precisi i suoi voti, passando dal 4 e rotti delle elezioni politiche all'8 virgola qualcosa delle ultime europee. Ovvio che la compagnia si è allargata e qualcuno comincia ad alzare un sopracciglio. A mezza voce, una giovane delegata («il nome nemmeno sotto tortura») arriva ad ammetterlo: «Diciamoci la verità, Idv, soprattutto a livello locale sta imbarcando personaggi, come dire, non proprio specchiati, reduci di mille battaglie su diverse sponde, politicanti di mestiere, quanto di più lontano dalla sbandierata e auspicata rivincita della società civile, di chi non si era affacciato mai alla politica, per età o per scelta». Pensiero condiviso, basta fare un giro sulla rete e i numerosi blog degli elettori di Di Pietro, che viene espressamente invitato a far piazza pulita di personaggi «inqualificabili e infil(tr)ati che si vedono in giro per le regioni». Per il resto la solita liturgia congressuale, uguale sempre e dovunque, con il suo rosario di slogan: il leader che «ha sempre guardato in avanti», il raduno che «non dev'essere una meta ma un punto di partenza», noi che «siamo per l'uguaglianza, la pace e il benessere». Bersagli grossi, insomma, che possono andar bene per tutti. Un pochino più laborioso capire la collocazione politica, ecco il capogruppo al Senato, Felice Belisario: «Non apparteniamo né alla destra né alla sinistra, non siamo né centristi né moderati». E quindi? Così come sottilissima la distinzione, come la espone un delegato lombardo, «tra l'essere antiberlusconiani e l'essere antigovernativi, stia attento le cose non coincidono». Sul primo fattore, pochi dubbi, tutti straconvinti che Berlusconi abbia ipnotizzato gli elettori con i media, che le stesse «esecuzioni mediatiche di questi giorni», con scoop farlocchi di Di Pietro a pranzo… con carabinieri e questori, siano di «puro stile P2, per intenderci». La new entry, allora, è proprio la lotta all'esecutivo, con i temi sociali ed economici che hanno ottenuto pari dignità con la giustizia (giustizialismo, per i nemici di Di Pietro e soci). La sensazione è che oltre alla sua destra (Pd), il movimento dipietrista guardi con qualche ambizione al campo lasciato libero alla sua sinistra. Precari, cassaintegrati, disoccupati: non ce n'era uno in sala, ma si parlava molto di loro. Una comunità che cerca di stare al passo dei tempi, insomma, nuova quanto poliglotta, che usa il web, lo streaming, Facebook e Twitter, i blog, i post e i no B-day. Un delegato siciliano non ha capito l'aria e resta ancorato alle dispute terra terra: «Sarà mica ora di togliere il nome Di Pietro da quello del partito?». Domani, forse, si farà anche quello. Luca Cardinalini

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