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Ciancimino jr attacca Berlusconi sui finanziamenti per Milano2

Massimo Ciancimino, figlio di Vito

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Che cosa sarebbe successo se trent'anni fa Masino Buscetta, «il Boss dei due mondi», avesse raccontato a Giovanni Falcone le fregnacce che da più di un anno Massimo, il figlio di Vito Ciancimino, va raccontando ai pm di tre o quattro Procure della Repubblica italiana e che ieri ha ripetuto per più di cinque ore nell'aula bunker del carcere dell'Ucciardone di Palermo(e non ha finito)? Molto probabilmente sarebbe successo ciò che successe quando un falso «pentito», tale Giuseppe Pellegriti, gli raccontò che il mandante dell'assassinio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella era stato l'onorevole Salvo Lima, capo della corrente andreottiana in Sicilia, e Falcone, invece di arrestare Lima e di avvisare di reato Andreotti, all'epoca presidente del Consiglio, arrestò e incriminò per calunnia Pellegriti e telefonò personalmente ad Andreotti per avvertirlo del complotto ordito contro di lui. Buscetta fu interrogato da Falcone per tre mesi e per tre mesi non una parola o un nome, una domanda o una risposta, una vaga indiscrezione, uscì dalla stanza degli interrogatori e finì sui giornali (Falcone arrivò a scriversi i verbali personalmente) e per sapere ciò che Buscetta aveva detto bisognò aspettare l'emissione delle centinaia di mandati di cattura con cui Falcone mise in moto il maxi processo. Ciò che Massimo Ciancimino racconta da un anno, domande e risposte, nomi e cognomi, accuse vecchie e nuove, lo si è saputo e lo si sa da prima ancora che avesse cominciato a raccontare, sono sui giornali prima e dopo gli interrogatori, e tra un interrogatorio e l'altro, Ciancimino di persona, prima e dopo gli interrogatori, va a raccontarlo in televisione, arricchendo i particolari e commentandoli, alle volte alla presenza stessa dei magistrati. Ciancimino non parla né da «pentito» nè da semplice testimone, ma nell'anomala condizione di «dichiarante di giustizia». Da mesi depone e dichiara esplicitamente di avere fatto da «postino» tra il padre, già condannato per mafia, e il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, e nessuno finora lo ha incriminato per associazione mafiosa. Non è sorvegliato intercettato e vigilato, ma è scortato e protetto, e va e viene, in giro per l'Italia e all'estero, con regolare passaporto, dove tra una cena e l'altra a Parigi, preleva da misteriose cassette di sicurezza di varie banche «documenti» (più spesso fotocopie che originali), che sarebbero corpi di reato, e che consegna a rate ai magistrati, possibilmente dopo che sono stati già pubblicati dai giornali. Nè si hanno notizia di iniziative dei magistrati, di richieste di rogatorie e di sequestri di queste misteriose e inesauribili cassette di sicurezze. I magistrati aspettano pazientemente che Massimo Ciancimino dica e, quando non dice, annunzia, che parta e ritorni con qualche pezzo di carta o con qualche fotocopia in più. Massimo Ciancimino dice che tutto ciò che racconta l'ha saputo dal padre, ma racconta il contrario di quello che il padre ha inutilmente raccontato ai magistrati e di quello che il padre ha lasciato scritto per non averlo potuto raccontare alla Commissione parlamentare antimafia, quella presieduta dall'onorevole Luciano Violante, che il padre non l'ha voluto mai sentire. E nessuno, tra i tanti pm che lo interrogano e lo ascoltano, gli ha mai contestato e gli contesta ciò che il padre ha detto, ha verbalizzato e ha lasciato scritto ed è il contrario di quello che racconta il figlio. Dice che il padre e lui stesso, che al padre faceva solo da autista e che non ha mai potuto assistere a un colloquio del padre, quelli «riservati» di cui pure assicura di sapere tutto, frequentavano ed erano frequentati da misteriosi «agenti» dei servizi segreti, ma dell'unico che riesce a indicare non sa dire nemmeno il nome, nemmeno il nome in codice e da più di un anno i pm non sono riusciti a trovare né Franco né Carlo. Si ricorda di un giornalista che il padre aveva conosciuto incontrandolo in un albergo di Roma mentre si accompagnava a Leonardo Sciascia e dice di aver saputo dal padre che questo giornalista doveva essere «vicino» ai servizi segreti, e non ricorda che il padre, quando incontrò e conobbe questo giornalista, la prima cosa che gli chiese, come avesse fatto a «incastrare il generale De Lorenzo» e a «sputtanare i servizi segreti italiani». Nelle cinque ore in cui ha deposto in aula ieri Massimo Ciancimino una sola cosa nuova ha aggiunto a quanto va dicendo da più di un anno, e per la verità non è una cosa di poco conto. Ha detto che a suo tempo la mafia ha finanziato Silvio Berlusconi nella costruzione di Milano 2. E bisogna riconoscere che questa volta ha surclassato i veri mafiosi, i veri boss, e i grandi «pentiti» del passato antico e recente. Francesco Di Carlo aveva rivelato a suo tempo che era stato Stefano Bontate, «il Principe di Villagrazia», il capo della mafia «moderata» a finanziare le televisioni di Berlusconi e gli aveva portato i piccioli di persona e in contanti fino a Milano, ma aveva sbagliato modalità, luoghi e tempi, e non era stato creduto. Più recentemente Gaspare Spatuzza ha raccontato che i fratelli Graviano avevano investito i loro piccioli nella Fininvest, e che in cambio Silvio Berlusconi, non ancora sceso in politica, gli aveva consegnato «l'Italia nelle mani», ma gli stessi Graviano hanno smentito. Massimo Ciancimino non è Buscetta che ha sempre detto di non aver mai saputo niente né di Berlusconi né di Dell'Utri, non è Di Carlo e non è nemmeno Spatuzza, ed è due volte sospetto per questa tardiva rivelazione per l'evidente conflitto di interessi che ne deriverebbe: se fosse vero, a rivendicare la quota capitale e gli interessi per i proventi dell'operazione Milano 2 da Silvio Berlusconi toccherebbe proprio a lui in qualità di erede legittimo di Vito Ciancimino. Siamo a questo punto: non gli basta nemmeno più il tesoro del padre?

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