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Le solite sceneggiate dei magistrati ad ogni minimo tentativo di riforma

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stannodistruggendo la giustizia penale e mettendo in discussione le fondamenta dello Stato democratico»), il Guardasigilli non ha sollevato la questione semantica, chiedendo conto del significato dell'aggettivo «democratico»: anche l'Ungheria del 1956 era una «democrazia popolare»; mentre un magistrato pure «democratico», in congresso, esortò ad abbattere lo «Stato borghese». Alfano, con garbo istituzionale, s'è limitato a rispondere: «Queste invettive sono delle mistificazioni della realtà che fanno cadere le braccia». In verità, fanno cadere a terra molte altre cose, con l'aggiunta di latte alle ginocchia, visto che simili sceneggiate, quasi con le medesime parole, le abbiamo ascoltate negli anni, ogni qual volta un qualsiasi governo, foss'anche di centrosinistra, s'apprestò ad introdurre una sia pur minima riforma. Da Mani pulite in poi, infatti, s'è instaurata una prassi paragolpista, nel senso che Esecutivo e Legislativo o procedono sotto dettatura delle toghe sindacalizzate e dei pm da prima pagina, oppure sono sconfessati, delegittimati, esposti al pubblico ludibrio. Quanti ministri sono caduti sotto l'assalto togato, o, comunque, sono stati derisi ed irretiti: da Martelli a Conso, da Biondi a Mancuso, da Castelli a Mastella! Ebbene, ormai codesti magistrati di lotta e di governo che si strappano i capelli, a chi li ha bianchi come me, son venuti a noia ed appaiono patetici. Nel 1997, venne riscritto l'art. 513 del c.p.p, adeguandolo al dettato Costituzionale. Nulla di che, eppure, scoprendosi privati di uno strumento di potere poliziesco e anticostituzionale, a parecchi magistrati sembrò la fine del mondo. Gerardo D'Ambrosio, con molta onestà, rara avis, ammise che «non è molto civile un paese in cui si può venire condannati grazie alle accuse di un signore che non si è neanche potuto sottoporre al controinterrogatorio». I suoi compagni, invece, alzarono polveroni spropositati. Giancarlo Caselli fu apocalittico, additando il nuovo 513 come causa di «una consistente caduta del controllo di legalità». E drammatizzò sino al punto di affermare che «la giustizia diventa ostaggio dell'imputato», che la mafia era stata, così, «abrogata per legge». Caselli sconfinò financo nell'invettiva biblica: «Si è preferito perpetuare la causa del male». Il pm romano Giovanni Salvi parlò di «colpo di spugna», anzi di più. Francesco Saverio Borrelli puntò il dito sullo «scompaginamento delle strategie processuali adottate dal pm», paventando «il rischio di arrivare inopinatamente a delle assoluzioni». Marcello Maddalena avvertì Parlamento e Governo di non aspettarsi «la complicità o il silenzio dei magistrati», e, intanto, lanciò l'allarme: «È inevitabile il dubbio che la nuova disciplina del 513... serva... non a prevenire la possibile condanna di pochi innocenti, ma solo a impedire la condanna di sicuri colpevoli». Piercamillo Davigo decretò che «i diritti della difesa non sono sacri». In piena tragedia greca, non poteva mancare il nesso avvelenato tra Parlamento e mafia. Guido Lo Forte la sparò grossa: «... Sembra che le richieste della mafia s.p.a. trovino gradualmente realizzazione». Ci mise anche il carico da undici: « ... Ata avvenendo quel che voleva Riina». Tredici anni fa, tanta isteria per una norma di civiltà giuridica. Partirono addirittura minacce, come quel togato milanese, rimasto anonimo, che, furibondo per la Bicamerale, confessò: «Se avessimo avuto una pistola alla tempia di D'Alema, avremmo tirato il grilletto senza aspettare un secondo».

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