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Carlo Vizzini: "Incontrai Borsellino tre giorni prima di via D'Amelio"

Carlo Vizzini

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«Non era lo stesso Borsellino...». Carlo Vizzini rimette a posto le carte. E anche i ricordi. Il presidente della commissione Affari Costituzionali del Senato torna a quella calda estate del 1992. Quel torrido luglio. La torbida Palermo, la sua Palermo, la stagione dei veleni e soprattutto delle stragi. Allora Vizzini era segretario di un partito di maggioranza, il Psdi. L'altra sera è rimasto incollato alla poltrona per vedere Annozero. La trasmissione di Santoro l'ha fatto ripiombare in quegli anni, in quei terribili momenti. Il giorno dopo si lascia scappare: «Non c'è dubbio che di quella stagione, quella delle stragi del '92-'93, vi sono ancora lati oscuri, parti buie. Che indubbiamente andrebbero chiarite. Ma procediamo con ordine, la prego». Va bene, procediamo con calma. Vizzini riprende fiato e ricorda: «Durante la trasmissione, Martelli ha sostenuto che Borsellino era a conoscenza della trattativa tra Stato e mafia. Non ho motivo di dubitare, anzi. Piuttosto, personalmente, ebbi un'impressione complessa». E si ferma. La domanda è automatica. Lo incontrò? «Ci siamo rivisti il primo giugno del '92. Proprio in mezzo alle stragi di Capaci e di via D'Amelio. Andai in Procura con il mio capo di gabinetto, il dottor Pietro Sirena. Stamattina, rimettendo a posto le carte, ho trovato il ritaglio di un quotidiano del giorno dopo. E mi ha fatto ricordare che durante quell'incontro arrivò anche una chiamata al 113, che ci allertava su una bomba messa nel Palazzo di giustizia». Vizzini sorride, poi si rifà serio. «C'era il procuratore capo e il suo aggiunto, Paolo Borsellino appunto. Noi eravamo andati a incontrarli perché avevamo deciso di dare il nostro appoggio al governo Amato solo se vi fosse stata una netta presa di posizione a favore della lotta alla mafia. Andammo a spiegare il nostro pacchetto di proposte. Tra le altre, ricordo, c'era anche la riapertura del carcere dell'isola di Pianosa». L'allora segretario socialdemocratico ha un'immagine nitida di Borsellino, quel giorno: «Era iperattivo, lucido, molto tosto e interessato alle nostre proposte e mi colpì per il fatto che chiese l'intera documentazione e se la fotocopiò. Fu un colloquio franco e leale». Fu quello il primo incontro con il magistrato che sarebbe stato ucciso di lì a poco. Il secondo e ultimo avvenne il 16 luglio, tre giorni prima dell'eccidio di via D'Amelio. «Andò così - ricorda Vizzini -. Mi chiamarono lui, Lo Forte e Natoli. Erano a Roma e nel tardo pomeriggio avevano finito di lavorare, perché quel giorno avevano sentito il pentito Mutolo. Volevano vedermi, diedi loro appuntamento a un ristorante di piazza di Spagna. Il Moccoletto, si chiamava. Al tavolo eravamo solo noi quattro». Il presidente della commissione Affari Costituzionali del Senato rallenta. Parla più piano, scandisce le parole affinché il racconto sia il più preciso possibile: «Borsellino non era lo stesso che avevo incontrato prima. Era un altro uomo. Come se avesse piena coscienza del fatto che in quei giorni la sua vita era veramente a rischio». Quella sera si parlò a lungo. Spiega Vizzini: «L'attenzione di Borsellino fu tutta sul rapporto tra mafia e appalti. In altri parole: mafia, politica ed economia. Aveva perfettamente compreso quello che sarebbe stato raccontato dai pentiti tre o quattro anni dopo. E cioè che il rapporto tra i clan e le imprese era profondamente cambiato. Mentre prima gli imprenditori venivano in Sicilia e i mafiosi procedevano con le estorsioni, in quel periodo, nei primi anni Novanta, le industrie, soprattutto quelle grandi, si erano sedute al tavolo della spartizione assieme alla mafia». Vizzini ricorda che quella sera raccontò di una denuncia che aveva fatto quattro anni prima, nel dicembre del 1988. «Ho ancora un ritaglio dell'Ora di Palermo. Il titolo era "Vizzini: imprenditori ricattati dalla pistola sul tavolino". Borsellino fu molto colpito. Ci salutammo, a fine serata, con la promessa che ci saremmo rivisti anche la settimana successiva e avremmo approfondito questo tema». Ma allora perché venne ammazzato il famoso magistrato? Perché aveva scoperto qualcosa sulla trattativa mafia-politica o perché aveva compreso l'accordo mafia-imprese? Vizzini ci pensa un attimo. Poi spiega: «Penso che andrebbe fatta luce su tutti i punti oscuri. Ma credo che le due cose possono essere concorrenti. E comunque una non esclude l'altra. Parliamoci chiaro, andrebbe fatta luce sulla strategia della tensione, sulla stagione delle stragi. Parliamoci chiaro, io non credo che un mafioso da solo si faccia venire in mente di mettere una bomba al Velabro, a via dei Georgofili o a via Palestro. Per il semplice motivo che io, che sono un docente universitario, a stento so dove si trovano quelle strade». Ma cosa poteva essere scoperto del rapporto mafia-imprese? Vizzini diventa più cauto: «Questo non lo posso sapere. Posso solo dire che nel '96, Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici della mafia, parlò del sistema, raccontò come per esempio in alcune gare fosse stata favorita la Ferruzzi e addirittura ipotizzò che Gardini si fosse ammazzato per questo, per una cosa attinente alla mafia e non a Tangentopoli. In quel periodo c'erano grandi appalti. Sul fronte delle dighe. Sulle autostrade. Basta rivedere che cosa succedeva. E comunque ciò che è sicuro è che quella sera a Borsellino era tutto chiaro. Aveva capito che il rapporto tra boss e imprenditori non era occasionale, era stabile. Quasi organico. Il che dimostra che l'intreccio era mafia-politica-economia e forse occorre scoprire ancora il quarto livello: pezzi dello Stato deviato? Ma, attenzione, la nuova mafia sta ricostruendo i comitati d'affari senza sangue ma con tanti soldi».

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