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L'ultimo Avamposto

Blindati leggeri italiani in Afghanistan

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{{IMG_SX}}La gola tra le montagne si fa sempre piu stretta, da oltre mezzora stiamo volando a pochi metri dalle pareti della montagna e stretti lì in mezzo, quasi a sfidare il buonsenso e le leggi di gravità si intravedono le tende dei nomadi, abbarbicate a mezza costa. Li vediamo scorrere via veloci dal portellone del Chinook aperto, fissando nello spazio vuoto tra la spalla del mitragliere e la parete dell'elicottero: due uomini, alcuni bimbi intorno e forse la figura avvolta nei teli colorati di una donna. Bastano quei pochi secondi a lasciare il dubbio di come sia vivere quella vita di nulla con qualche capra, intorno polvere, sassi e solo il cibo essenziale per sopravvivere. Così ci si guarda intorno, tra un sobbalzo e un'altro quasi cadendo addosso al passeggero seduto accanto durante il volo tattico per raggiungere quell'angolo di mondo lassù, a nord ovest di Herat: Bala Murghab il fortino dove gli italiani combattono l'ultima battaglia contro i talebani. È un volo diverso da tutti gli altri, ma solo così ci si può arrivare. Gli elicotteri non possono permettersi di seguire le rotte normali, sarebbero un obiettivo troppo facile per i razzi e i mortai che i talebani sembrano possedere in quantità industriali, e allora per sfuggirli si vola così bassi, quasi sfiorando il suolo con il grosso elicottero diventato improvvisamente aglile che tenta di arrotolarsi su cercando di sorprendere il nemico potenziale tracciando vistose curve nell'aria. Sembra incredibile come il gigantesco CH47 riesca a diventare un giocattolo nelle mani del pilota. Noi, da dietro, continuiamo a guardare con sorpresa la terra che sfila a pochissimi metri di distanza. poi in una nuvola di polvere sottile, quasi impalpabile, atterriamo a Bala Murghab. Fango secco, paglia, qualche animale che pascola svogliato in un campo appena distante e il passo lento di un contadino afghano sullo sfondo è tutto quello che il panorama racconta: e lì di fronte la postazione italiana. Al centro del campo un grande edificio che una volta aveva un vero tetto e oggi viene coperto alla bell'e meglio da un paracadute: lo si capisce anche dagli oggetti, dalle soluzioni di fortuna, che colonnello Tuzzolino e i suoi uomini si sono inventati un modo per sopravvivere anche in questo posto. Lui, il comandante della base ci viene incontro e mentre ci arrampichiamo insieme su una postazione appena più alta ci fa capire perchè questo posto è tanto importante. Il piccolo villaggio è diviso in due dal fiume, il Murghab, che in questa fase è diventato anche la linea di demarcazione tra la «safe area» il territorio messo in sicurezza dai nostri uomini, e la zona ancora nelle mani degli insurgents, talebani, rivoltosi e criminali a vario titolo che di là dal fiume dettano legge. Per lunghi mesi, ogni notte la base è stata l'obiettivo dei tiri di mortaio, dei razzi, dell'artiglieria nemica. Nonostante gli attacchi gli italiani sono stati li, non si sono mossi, hanno dimostrato che avrebbero tenuto posizione, e allora le aggressioni si sono moltiplicate. Il comandante ci spiega che anche qui come nel resto dell'Afghanistan il controllo del territorio viene realizzato con l'aiuto delle forze afghane, esercito e polizia, che organizzano check point nella zona degli insurgents. Ma tra le brande nelle caserme afghane si raccontano storie atroci di soldati finiti nelle mani dei Taliban, uccisi lentamente e attraverso mille torture: così per loro stare là fuori è ancora più dura, ma questa è una guerra che si combatte metro per metro, per stabilire chi, realmente, ha il controllo sul villaggio. Sono queste le cose che si pensano e si capiscono dal nostro punto di osservazione sotto il sole a picco, lì in cima agli escobastion (i sacconi di rete, juta e sabbia che servono per difesa), mentre il colonnello Tuzzolino ci indica i due check point avanzati, uno proprio degli afghani, e l'altro controllato dai nostri soldati, e tutti e due ci paiono così pericolosamente distanti, proprio lì in mezzo quella striscia di terra in mano agli insurgents. E alla fine ci sembra quasi inutile stare lì fissare i movimenti tra le cassette di paglia e il verde sulle sponde dei canali, tentare di immaginare gli spostamenti, i volti, le azioni. Non ce la facciamo ad accettare di rimanere a vedere cosa succede da qui, protetti dallo scorrere del Murghab e, appena parte la prima pattuglia cerchiamo di aggregarci, di andare a vedere. Alle tre del pomeriggio salire a bordo dei Lince non è un'esperienza felice, e il caldo soffocante, la sabbia, il sudore si superano solo pensando che gli uomini che stanno uscendo con noi erano già là fuori fino a due ore fa. Sono rientrati in base, hanno mangiato qualcosa al volo e poi di nuovo in strada, questa volta con il problema aggiuntivo dei giornalisti al seguito: davvero, basta concentrarsi su questa realtà per trovare tutto di colpo più accettabile. In cinque minuti di viaggio siamo già nel centro del villaggio, e proprio quei cinque minuti danno il senso dei due mondi così diversi che convivono in questa terra: la tranquillità antica dell'Afghanistan rurale da una parte e l'inquietudine sotterranea e violenta dell'Afghanistan dei talebani, dei commercianti di armi e droga dall'altra. I negozietti sono quasi tutti chiusi, ma davanti alle poche serrande alzate ci sono piccoli gruppi di uomini che parlano, guardano o bevono il tè. Quasi tutti si contentano di inchiodarci addosso sguardi fissi, difficili da decifrare. Qualcuno non riesce a mascherare uno sguardo sorpreso quando si rende conto che lì in mezzo ai soldati c'è anche una donna, ma sono solo sguardi sfiorati dal finestrino. Non ci fermiamo volutamente, sostare lì in mezzo vorrebbe dire turbare la calma apparente del momento, intaccare la loro pretesa normalità e in qualche misura provocarli, così attraversiamo lentamente le vie polverose senza colore. Ancora svolte, qualche centinaio di metri, i Lince sobbalzano a ogni metro e continuano ad avanzare nel cuore del villaggio finchè arriviamo al check point dove i paracadutisti della Folgore tengono posizione in pieno territorio ostile. Anche qui i ragazzi si sono organizzati, in qualche modo. A piano terra hanno due brandine e un po' di bottiglie di acqua, sopra una postazione di osservazione coperta dai sacchi di sabbia e dai teli mimetici che nasconodono canocchiali e fucili di precisione. Lì di fronte, a pochi metri, il nemico. I talebani sono arroganti, fanno sventolare la loro bandiera, un drappo bianco in cima a un lungo bastone, su una casa abitata da famiglie normali. È ancora una volta la loro tecnica subdola, consumata, la vediamo qui e l'abbiamo vista identica a sud, seguendo i marines in azione. Questi combattenti ammantati di retorica e di nessuno scrupolo, usano la gente normale, i contadini, gli abitanti dei villaggi come scudi per le proprie azioni. I talebani prima attaccano, poi ripiegano nei luoghi dove vive la gente normale. Si nascondono nei villaggi, tra le famiglie dei contadini in modo che ogni risposta armata degli uomini dell'ISAF si possa tradurre in un terribile risultato di vittime civili. E anche qui a Bala Murghab loro bandiera che sventola a un passo dai check point in fondo non è altro che la conferma del loro modo di agire. Così i due parà di guardia sulla torre seguono i movimenti tra le case, immobili per ore con lo sguardo fisso nel binocolo. la scena è immobile, il senso di attesa sovrasta tutto. E quel silenzio irreale che inquieta. al piano di sotto sulle brande in mezzo alla polvere qualcuno butta lì una battuta e strappa mezzo sorriso, la giornata è ancora lunga. Noi ci sentiamo un po' turisti inutili venuti a guardare da vicino l'inquietudine senza possibilità di afferrarne il senso. vorremo riuscire a raccontare delle elezioni che ci saranno, se ci saranno qui, solo grazie al lavoro di questi uomini, o della tregua di queste ore che sembra tenere riducendo a pochi suoni gli spari nella notte. Ma poi sul racconto delle cose che sono vince il senso di immutabilità di questo posto. Le rughe scolpite su quei volti che sembrano raccontare la loro appartenenza a questa terra come noi forse non la capiremo mai. Così rimane tutto fermo, fuori dal tempo. Da una parte i talebani e le loro mani sul villaggio, la violenza della loro legge. Dall'altra gli uomini della Folgore venuti da lontano a cercare di garantire a questa gente non l'applicazione di un modello che non gli appartiene, ma la possibilità di scegliere per la propria vita. Un lusso inedito persino difficile da capire per chi da sempre sopravvive nella polvere di fango delle case di Bala Murghab.

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