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Bobo: "Mio padre Bettino che aiutava soprattuto i nemici"

Bettino Craxi

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Forse per questo nella sua, di famiglia, non è mai stato il "papà che torna a casa la sera". Giusto, sbagliato? Era un fatto. Coi fatti si impara a convivere. Ma era mio padre». Non ama le commemorazioni Bobo Craxi, dirigente del Partito Socialista e figlio di Bettino Craxi, di cui ricorre oggi il nono anniversario della morte. «Rifuggo dal farne un santino», dice, ricordandolo qui come «Bettino», più che come il potente statista. «Timido? Sì, mio padre lo era. Proteggeva così i suoi sentimenti e, per autodifesa, li mascherava con scatti anche duri, improvvisi. Una volta su una spiaggia vide un ragazzotto prendere a calci un vecchietto che vendeva tappeti. Corse verso il ragazzo e lo aggredì per fermarlo. Era un poliziotto: ma mio padre non guardava in faccia nessuno. Arrogante? No. Era figlio della guerra. Era bambino quando piovevano le bombe su Milano. Aveva la violenza che la guerra ti dà quando la vedi in faccia. Ma dietro c'era molto di più». Che cosa? «Era originale, un inventore. Ogni volta creava slogan, modi di dire: i suoi pseudonimi, "Ghino di Tacco", "Edmond Dante's", o detti come "il Grande Vecchio", "la manina", "la Grande Riforma". Aveva una forte fantasia letteraria, amava l'avventura. Si sarebbe paragonato più a Salgari che a Pirandello o Aristotele». Uno scontroso con l'anima da artista? «Soprattutto un buono, di una umanità tanto più nascosta quanto più sincera. Si occupava delle vite di tutti. Si preoccupava dei matrimoni degli altri, della loro salute. Si faceva in quattro persino per i nemici. Quando il direttore di un settimanale a lui avverso si ammalò di un male terribile, mio padre prese carta e penna e gli mise a disposizione tutto il suo aiuto. Lui aveva una sua religione laica. Era un leader, il capo di una comunità spirituale, politica e umana: la sua grande famiglia, di cui si prendeva cura costantemente». E della «sua», di famiglia? «Il leader si dedica sempre a una collettività più ampia del suo clan. Quando la vita politica era totalizzante, non esisteva una quotidianità familiare. C'è sempre stata una distanza decisiva. Da un padre così, è molto difficile non restare schiacciati. Ci si deve difendere e io l'ho fatto. Se no non sarei arrivato fin qui senza effetti collaterali». Possibile, nessuna cicatrice? «Qualcuna forse c'è. Non a caso io sono un padre presentissimo». Ma l'amore è sempre stato forte: «Mio padre era molto italiano, in una tipica famiglia patriarcale. Il vuoto più grande è non aver più quella persona che sa dirti la parola decisiva, indicarti la strada». Dopo la bufera, la situazione si rovescia: «A quel punto fu lui ad aver bisogno di conforto. Ho speso anni standogli accanto. Lì è diventato ancora più umano. Si preoccupava delle piccole famiglie di pescatori, che i loro figli andassero a scuola o dal dentista». Craxi era bravo anche nelle previsioni: «Spesso indovinava. Sulla questione mediorientale è sempre stato scettico che potesse finir bene. Arafat però seguiva sempre i suoi consigli. Quando si conobbero, l'Olp era un movimento delegittimato: Craxi disse ad Arafat di piantarla con la lotta armata e di iniziare un dialogo con gli israeliani, riconoscendone l'esistenza. Così fece. La vedova e la figlia di Arafat mi chiamano tuttora: non dimenticano quanto Craxi abbia fatto per la Palestina e quanto l'assenza di grandi leader renda oggi queste vicende molto più complesse». E Mitterrand? «Ha sempre riconosciuto le doti di grande statista di mio padre e non gli ha mai fatto mancare la sua amicizia. Come Andreas Papandreou, Willy Brandt o Felipe González, spesso in vacanza da noi». Per sabato 24 a Roma è prevista una grande manifestazione: «Bettino il Socialista». «Quando la bufera scoppiò», conclude «mio padre capì subito che sarebbe andata sempre peggio. Era un figlio della guerra: sapeva che era in atto una guerra. E che lui non l'avrebbe potuta vincere».  

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