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Nel libro di Bruno Vespa il racconto di un Paese spaccato dalle elezioni

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Lo disse a voce bassa, scuotendo la bella testa ormai canuta. Lo disse con un bagliore negli occhi chiari, quel bagliore che da giovane, nel suo Abruzzo, gli valse il nomignolo di «Scintillone». «Non ce l'abbiamo fatta». Era l'inizio dell'ottobre 2006, un ottobre caldo e luminoso, arrivato come una grazia tardiva dopo un'estate balorda. Il presidente del Senato aveva raggiunto, in segreto, i maggiorenti dell'Ulivo nella sede di piazza Santi Apostoli. Mancavano ormai pochi giorni al seminario di Orvieto, cioè alla «costituente morale» del Partito democratico, e gli ex democristiani della Margherita avevano ritrovato identità e orgoglio nel convegno di Chianciano. Marini, che per sei mesi aveva lavorato in silenzio alla preparazione del convegno, ne era uscito come indiscusso azionista di controllo del partito e ora, nella riunione segreta di piazza Santi Apostoli, imprimeva la svolta decisiva al concepimento di quel "partito che non c'è" al quale troppi, nei Democratici di sinistra, guardavano con diffidenza. Ma il suo «Non ce l'abbiamo fatta» si riferiva ad altro. Si riferiva al primo semestre di esperienza governativa dell'Unione, alla lunga e già sofferente coalizione di nove partiti, avanguardia dei diciotto che avevano firmato, in un grande studio notarile romano, pagina dopo pagina le 281 cartelle del programma dell'Unione. Si riferiva all'Italia spezzata. Si era giunti alle elezioni del 9 aprile in un clima esasperato. Silvio Berlusconi, sepolto dagli avversari e dagli alleati prima del tempo, aveva compiuto una spettacolare rimonta finale perdendo la Camera per 24.577 voti e il Senato, dove la Casa delle Libertà aveva riportato 200.000 voti in più, per la stravagante ripartizione regionale del premio di maggioranza e per la follia della gestione del voto all'estero. Romano Prodi aveva guidato le truppe dell'Unione senza risparmio, sinceramente convinto di combattere la battaglia del nuovo 25 aprile e di liberare la patria dal dittatore di Arcore. Alla fine vinse l'Unione, pur prendendo complessivamente meno voti della CdL. Vinse e si assegnò la presidenza della Repubblica, del Senato e della Camera: tutte le istituzioni e tutto il potere disponibile. Il primo provvedimento importante del nuovo governo era stato il decreto legge Bersani-Visco sulle liberalizzazioni. Un po' per la fretta, un po' per qualche clamoroso errore attribuito — come ci dirà tra poco il presidente del Consiglio — a un «trappolone» teso da qualche isolato cecchino della Casa delle Libertà, suscitò vigorose proteste di piazza, che finirono per offuscare alcuni suoi lati positivi. Tuttavia fu la prima legge finanziaria della nuova stagione politica a spezzare di nuovo l'Italia e, questa volta, in modo più confuso, inquietante e «simbolico». L'avesse divisa solo tra ricchi e poveri, poco male. Sul manifesto di Rifondazione comunista, accanto alla foto di uno yacht da 40 milioni di euro che batteva la bandiera dell'evasione fiscale, non c'era forse scritto «Anche i ricchi piangano»? No, il punto non era questo. (Il manifesto fu peraltro sommerso dalle critiche degli altri partiti dell'Unione.) Il punto era che — al di là della parata di dichiarazioni della maggioranza in televisione — era difficile trovare qualcuno che la difendesse davvero, quella legge. I ricchi non avrebbero sofferto per il pagamento, al massimo, di 1700 euro in più all'anno. Era piuttosto il ceto medio, a torto o a ragione, a sentirsi, se non aggredito, certo a disagio. Erano i poveri a temere che i pochi euro in più in busta paga fossero vanificati da ticket e imposte locali. E poi c'era l'impressionante e inattesa valanga di proteste dei sindaci di centrosinistra che tracimava dai telegiornali e inquietava le famiglie. Gli stessi sindaci che avevano annunciato lampioni spenti e asili chiusi quando l'ultima finanziaria del perfido Giulio Tremonti aveva imposto agli italiani tagli inferiori a quelli del pacato e rassicurante Tommaso Padoa Schioppa. Come era potuto accadere che il sindaco di Bologna Sergio Cofferati

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