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«I vinti di allora sono i vincitori di oggi» Ma la Camera si divide come 50 anni fa

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Ma, anche dopo cinquant'anni, certe ferite nel panorama politico italiano non sono ancora chiuse. Ferite emerse chiaramente nel dibattito parlamentare seguito alla commemorazione di quella rivolta «nazionale e democratica» che determinò «immane sofferenza, uccisioni ed una diaspora del popolo ungherese». Fausto Bertinotti, recentemente andato a Budapest a rendere onore alla tomba di Imre Nagy, si leva in piedi e raccoglie un applauso bipartisan quando definisce gli insorti d'Ungheria «non solo vittime della storia, ma anche portatori di futuro, protagonisti di una rivoluzione nazionale e democratica repressa con l'inganno dall'Urss che si è macchiata di una indelebile colpa storica, calpestando i diritti di un popolo e della persona». Bollando la repressione sovietica come un «capitolo grave e terribile della storia di cui ha rappresentato un avvenimento importante e tragico», il presidente della Camera auspica unità nella «condivisione della verità storica di quegli avvenimenti, perché una storia condivisa consolida le istituzioni democratiche». Ma, dopo l'applauso, la contestazione si leva subito dall'Aula. Parte da Stefania Craxi che, quasi urlando, sostiene che il gesto di Bertinotti sarebbe stato «politicamente significativo se avesse detto che avevano ragione Craxi e Nenni. Perché fu Craxi che chiese la riabilitazione di Imre Nagy, ed ancora oggi non siete capaci di dire chiaramente chi aveva ragione e chi aveva torto a quel tempo». Il presidente le fa spegnere il microfono, ma la miccia è accesa. Ignazio La Russa condivide le parole di Bertinotti, aggiungendo che «i fatti del '56 misero fine ad un sogno, perché si ritrovarono in piazza operai che combattevano un regime che invece doveva essere per loro una svolta. E noi non abbiamo bisogno di fare alcun revisionismo». Benedetto Della Vedova attacca il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ed evidenzia che «l'invasione dell'Ungheria del 1956 non è solo una questione storica, ma rimane una questione politica: nel nostro paese vi è un comprensibile imbarazzo dovuto al fatto che, a parte alcune esemplari testimonianze individuali, la classe dirigente del Pci, compreso chi ora è ai vertici della Repubblica, scelse di sostenere l'invasione sovietica e di etichettare i rivoltosi che cadevano sotto il fuoco come lacchè della reazione borghese». Da sinistra, Franco Giordano del Prc condanna la logica del «partito-Stato», mentre pone come obiettivo dell'essere comunisti la «ricerca dell'uguaglianza che non può essere scissa dalla liberta» che rappresenta «la valorizzazione delle differenze». Ma la tensione sale alle stelle quando Pino Sgobio (Pdci) critica Bertinotti per aver deciso di tenere questa commemorazione in un'Aula «dove ricordi anche recenti portano a parlare in maniera astorica e impropria». E si lancia in un intervento più volte e duramente interrotto dai banchi della Cdl, con Bertinotti più volte costretto ad intervenire minacciando richiami e sospensioni della seduta per consentirgli di andare avanti. L'acme si raggiunge quando Sgobio afferma che rifiuta «lezioni di democrazia e di libertà» dagli «eredi del fascismo, responsabile in Italia di migliaia e migliaia di morti. Il giudizio definitivo sui fatti di Ungheria non può darlo chi si richiama agli assassini di Matteotti e Gramsci. Non vorrei che i vinti di allora oggi siano quelli che impediscono un dibattito sereno». Volano parole grosse. «Comunista», «scemo», «sei vecchio», gli gridano i deputati del centrodestra, mentre Bertinotti si sbraccia invitando «a non trasformare questo momento in una gazzarra disonorando l'Aula». La calma viene riportata dall'intervento del ministro Giulio Santagata, il quale sottolinea che «su quei valori di democrazia che ispirarono la rivolta soffocata con la forza si fondano l'Italia e l'Europa: essi sono la base per un Paese sempre più coeso».

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