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Un Paese spogliato della sua ricchezza

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In nome della liberalizzazione sono stati ceduti tutti i settori industriali dello Stato

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C'è rimasto poco nella siderurgia, mentre nell'energia e nelle banche i gruppi esteri si stanno ritagliando sempre più spazio. La corsa alle liberalizzazioni, diventata un dogma dopo cinquanta anni di monopolio di tutto, in nome dell'Iri, ha già fatto sparire alcuni tra i settori fondamentali dell'economia, lasciati emigrare o, semplicemente, venduti ad imprese straniere che decidono loro quel che serve, quando e come per questo Paese. Della grande industria privata è rimasta solo un'associazione, la Confindustria, che resta in piedi giusto grazie alle ricche quote associative versate dalle imprese ancora sotto il controllo pubblico (Enel, Ferrovie, Poste, Alitalia, ecc). Una situazione tutt'altro che nuova. Basta andare a leggersi la relazione letta tra gli applausi di tutti dal governatore di Bankitalia Antonio Fazio nel maggio del 2003 (dunque in tempi non sospetti rispetto al risiko bancario degli ultimi mesi): «È scarsa la presenza delle nostre merci nei settori tecnologicamente avanzati. L'aumento degli acquisti dall'estero per soddisfare la domanda interna ha superato quello delle esportazioni». Un po' per fare cassa, un po' per aprire nuovi mercati, gli ultimi governi hanno costretto i monopolisti pubblici a drastiche cure dimagranti, costringendole a cedere asset. L'obiettivo era di far crescere i competitor nazionali e, perché no, anche far entrare un po' di tecnologie e capitali esteri. Ma nei settori chiave, dove c'era da far soldi, i grandi gruppi esteri hanno fatto man bassa. O ci stanno provando. Una situazione esemplare è quella dell'energia. Oggi in Italia non si produce nemmeno più lìelettricità sufficiente per il fabbisogno interno, e ciò malgrado il calo della domanda industriale energivora. Ci si è consegnati mani e piedi nell'ultimo decennio non solo all'importazione, obbligata, dei combustibili fossili ma a quella diretta di elettricità. L'Enel è stata costretta a vendere le centrali e a far spazio ai francesi di Edf. Solo in questo caso il governo è corso ai ripari, bloccando il peso dell'azionista francese in Edison, salvo sbloccare solo di recente in cambio di una reciprocità concordata tra i governi di Roma e Parigi. Adesso ci sono in ballo nuovi asset. Il tetto alla crescita imposto all'Eni potrebbe costringere la società di Scaroni a cedere ai russi di Gazprom la rete di distribuzione del metano di Snam rete gas. Una operazione pericolosa, perché Gazprom è anche uno dei grandi fornitori dell'Eni. E di privatizzazioni selvagge si parla proprio in questi giorni in tema di strade. Il governo vuole fare cassa cedendo pezzi della rete viaria, mentre l'Anas chiede di non smembrare la società e i lavoratori scendono in piazza (uno sciopero nazionale è fissato entro questo settembre). L'intervento pubblico dunque non sembra più un tabù. Anche perché se all'industria italiana sono venuti a mancare gli industriali, non c'è alternativa che sia lo Stato a fare l'industriale. Diversamente si corre il rischio di restare presto senza nessuno dei settori chiave per l'economia di un Paese. Su questo Fazio ha perduto la sua personale e solitaria battaglia. Perdere il credito, aveva spiegato, è più grave che perdere la chimica. Ma oggi sono in pochi ad ascoltarlo.

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