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Quel giorno a Cassibile negli italiani si estinse il senso della Patria

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L'8 settembre del 1943, si estingue negli italiani il senso della patria. Quel giorno infatti, di fronte all'ex alleato tedesco trasformatosi in invasore e occupante, tutto un popolo e una classe dirigente fugge e si arrende. Emblematici in questo senso sono la fuga a Pescara del re con i vertici politici e militari che lasciano l'esercito privo di ordini e direttive, e il collasso etico-morale della borghesia, che diversamente dalla reazione prodotta nel 1917 dopo Caporetto, inizialmente allineata con Mussolini nella prospettiva della "guerra breve", diviene incapace di intendere e di volere di fronte alla realtà della "guerra lunga". Riemergono, infatti, i retaggi delle divisioni plurisecolari del passato preunitario e il fragile patrimonio della tradizione risorgimentale e degli otto decenni di vita dell'Italia unita viene spazzato via. Gli italiani escono dalla storia, preoccupati ormai, solo della salvezza individuale e della sopravvivenza quotidiana. In questa situazione le definizioni della Resistenza come movimento popolare di massa, e secondo Risorgimento offerte dalla vulgata marxista stridono fortemente con la realtà. Essa nasce e si caratterizza, infatti, come movimento di alcune minoranze attive, secondo quanto confermano, del resto, anche le cifre tratte dagli archivi della sua controparte politica e ideologica: la Repubblica Sociale italiana. Quest'ultima, si costituisce, con la liberazione e il ritorno sulla scena politica di Mussolini, pochi giorni dopo l'8 settembre, su regia e pressione di Hitler. Il duce accetta l'offerta tedesca perchè vuole limitare il più possibile la durezza del regime di occupazione tedesca e impedirgli l'annessione delle terre strappate al dominio austriaco nel '15-'18. In realtà, però, la nascita della Rsi, impedisce alla Resistenza di agire da fattore aggregante degli italiani contro l'oppressore straniero, e riapre la guerra civile tra fascismo e antifascismo, temporaneamente vinta dal primo nel 1922. Pertanto, si verifica una limitata adesione degli italiani, da entrambe le parti, a causa del prevalere della politicizzazione e del motivo ideologico sui motivi nazional-patriottici. Le due fazioni, infatti, non raccolgono insieme, nel biennio della guerra civile 43'-45', più di 3 o 4 milioni di persone, sui 44 complessivi della popolazione italiana. Estremamente significativo di questo clima, del resto, appare l'eliminazione fisica, compiuta nel 44' dai partigiani ma condivisa anche dagli estremisti di Salò, di Giovanni Gentile che, aderente alla Rsi, aveva cercato di porsi alla guida di un ideale partito conciliatore delle due fazioni in chiave patriottica. Inoltre, la guerra civile, sempre negata dalla vulgata marxista, consente ai comunisti di egemonizzare il movimento resistenziale, spostandolo decisamente su una prospettiva rivoluzionaria di tipo socio-politico che metta in secondo piano o usi strumentalmente gli elementi patriottici non politicizzati, come accade al liberale monarchico Alfredo Pizzoni, presidente del Clnai, rimosso da ogni incarico politico all'indomani del 25 aprile 1945. Il Pci, infatti, mira a rovesciare l'assetto monarchico per instaurare una democrazia popolare che sulla falsariga dell'esperienza dei paesi liberati dall'avanzata sovietica, costituisca l'anticamera del compimento della dittatura del proletariato. Questi intendimenti spiegano, sia la volontà comunista di trasformare il movimento della Resistenza in un vero e proprio esercito, capace di agire a fianco degli Alleati, e soprattutto di occupare i territori via via liberati, per attuare la democrazia popolare, sia i contrasti sorti con gli Anglo-Americani. Questi ultimi, che hanno stipulato degli accordi con l'Italia di cui è garante

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