L'economista Nicola Rossi e la ricetta per il rilancio dell'Italia: “Meno tasse, meno spesa e meno pubblico”
Il Tempo ha ascoltato l’opinione di Nicola Rossi, voce liberale e pro mercato autorevolissima, economista dell’Università di Roma Tor Vergata e componente del cda della fondazione dell’Istituto Bruno Leoni.
Cominciamo dalle cose più piccole. Al di là del merito, fa un po’ sorridere chi si straccia le vesti per le acque increspate sulla legge di bilancio. Qualcuno è forse vissuto all’estero negli ultimi trent’anni, tra nottate pre natalizie, riunioni convulse, maxi emendamenti e fiducia finale?
«Francamente non riesco a stupirmi. Non ricordo molti casi in cui le cose siano andate molto diversamente. Mi sorprende, piuttosto, il fatto che non ci si renda conto che tutte queste alzate di scudi, oggi come ieri, riguardano manovre di bilancio la cui portata è assolutamente marginale rispetto alla dimensione della nostra spesa pubblica. Parliamo, nel 2026, di un 2 per cento circa. Il che segnala come non siano in campo questioni veramente rilevanti per il futuro del Paese ma, molto più spesso, interessi legittimi ma molto limitati se non proprio particolari. O questioni inutilmente simboliche. Continuo a pensare che, come accade altrove nel mondo, la legge di bilancio non dovrebbe essere emendabile o quasi. E continuo a pensare che il Parlamento non ne sarebbe sminuito: al contrario».
Ciò detto, cosa la convince della legge di bilancio in via di approvazione?
«Innanzitutto, la direzione di marcia. Si conferma la scelta dell’esecutivo di una politica di bilancio prudente e responsabile. Una scelta di cui cominciamo già ad incassare il dividendo in termini di minori oneri per il servizio del debito e affidabilità del nostro debito sovrano. Non era scontato che l’attuale esecutivo adottasse questa direzione di marcia ed era ancor meno scontato che la tenesse ferma nel corso della legislatura. È un merito che gli va riconosciuto. Più specificamente, ho molto apprezzato la riduzione della aliquota Irpef per il secondo scaglione. È un importante passo in avanti nella direzione della attuazione della delega fiscale in essere. Ma soprattutto è molto positivo che si sia scelta la strada della riduzione dell’aliquota e quindi la strada di una riduzione generalizzata dell’onere fiscale. Stiamo cominciando a restituire ai contribuenti leali- a tutti i contribuenti leali - il maggior gettito affluito nelle casse dello Stato nell’ultimo quindicennio in virtù della attività di contrasto all’evasione».
E invece cosa non la convince?
«A parte una serie di provvedimenti minori visibilmente intesi a tenere conto di specifici segmenti dell’elettorato - come spesso accade - sono poco convinto dal modo con cui Stato e sistema bancario sembrano interagire. Non perché pensi che le banche non debbano dare il loro contributo ma perché si sta rendendo sempre più complicato un rapporto che può essere fonte di seri pericoli. Mi spiego. Se non vado errato, sono ancora in essere oltre 100 miliardi di garanzie dello Stato offerte alle banche nel momento dell’emergenza. Garanzie che oggi non hanno alcuna ragione di essere. Mi domando perché le banche, volendo avvalersene, non debbano pagare anche più di quanto il mercato chiede per simili garanzie. Sarebbe stata una soluzione molto più lineare di quella adottata (e sarebbe stata trasferita sui clienti esattamente come accadrà per gli odierni provvedimenti). Si sarebbe dato un segnale al sistema bancario il cui compito primario è la valutazione del merito di credito e, contestualmente, si sarebbe stabilita una adeguata distanza fra lo Stato e il mercato del credito. Una distanza oggi praticamente assente stante il ruolo abnorme che le banche italiane giocano nella collocazione del debito pubblico e, per converso, il conflitto di interessi che pesa su uno Stato che al tempo stesso si propone come arbitro e come giocatore in quello stesso mercato. Fra i principali rischi che le istituzioni internazionali intravedono per il prossimo futuro c’è una nuova crisi del debito sovrano. Arrivarci con un rapporto troppo stretto fra Stato e banche è la prima cosa da evitare. È una lezione che tanto la politica quanto i banchieri dovrebbero aver imparato».
E tuttavia c’è un limite aldilà del quale prudenza e disciplina rischiano di diventare un problema? Serve un supplemento di coraggio? Cosa suggerirebbe a Meloni e Giorgetti?
«Penso che tanto il presidente del Consiglio quanto il ministro dell’Economia sappiano bene che una politica di bilancio prudente e disciplinata meritoria e benvenuta, lo sottolineo, perché precondizione della crescita- possa incontrare nel tempo gravi difficoltà se non accompagnata da una crescita sostenuta. In assenza di quest’ultima, diventano inevitabili avanzi primari significativi e non necessariamente sostenibili. Socialmente e politicamente. Riportata in equilibrio la finanza pubblica, è vitale tornare a crescere. L’impatto di lungo periodo del Pnrr- oltre quello di breve periodo che è in atto è ancora incerto e sappiamo già con chiarezza che lo Stato dovrà porsi nel prossimo futuro nuove e per molti versi inattese priorità. Diventa quindi cruciale puntare sul settore privato cui occorre restituire libertà di manovra e a cui occorre chiedere di tornare a rischiare. In questo il momento attuale ricorda altri momenti della vita di questo paese in cui ci si rivolse alla capacità imprenditoriale e alla creatività degli italiani per uscire dalle difficoltà. Con risultati a dir poco straordinari».
Mettiamola così. Ammesso che il centrodestra rivinca nel 2027, ha davanti a sé sei leggi di bilancio, quella del prossimo anno più altre cinque. Lei cosa suggerirebbe strategicamente?
«Credo che le priorità siano oggi due: restituire ai contribuenti leali il maggior gettito derivante dalla accresciuta "compliance" fiscale e andare oltre la strategia - visibilmente inefficace - delle semplificazioni. Nel primo caso, si tratta di tornare alla pressione fiscale prevalente negli anni precedenti la crisi del 2008. Nel secondo caso, si tratta di prendere atto che parliamo di semplificazioni da trent’anni con risultati risibili se non addirittura controproducenti. Non si può fare meglio - più semplicemente - ciò che già oggi è visibilmente di troppo. Per fare meglio bisogna fare meno. Ciò premesso, l’intera classe politica italiana dovrebbe rendersi conto che siamo in una fase in cui è necessario - che ci piaccia o meno - rivedere l’ordine di priorità dell’azione pubblica. Siamo e saremo costretti a fronteggiare rischi che speravamo di non dover considerare. Ciò implica rivedere e non marginalmente l’attuale attività dell’operatore pubblico. E rinunciare anche a principi che nel tempo si sono sostanzialmente svuotati. Si pensi, ad esempio, all’universalismo nella fornitura di alcuni servizi pubblici. Ripensarlo va nella direzione della salvaguardia dei più deboli».
Il Tempo ha avanzato la proposta di un’operazione a tappe: sei tagli di tasse consecutivi, accompagnati da sei operazioni di tagli alla spesa improduttiva. E’ un’ipotesi da considerare?
«Certamente. Come già accaduto nella legislatura in corso, ci sono obbiettivi perseguibili solo in un lasso di tempo adeguato. L’obbiettivo di riduzione della pressione fiscale prima menzionato non può non essere spalmato su un intervallo pluriennale anche perché non può non essere accompagnato da un ripensamento profondo delle priorità sul versante della spesa. Al contrario, l’obbiettivo di una drastica riduzione degli oneri burocratici sull’attività di famiglie ed imprese andrebbe preparato oggi (possibilmente non da parte dei complicatori di professione) e perseguito nella sua interezza già al momento dell’avvio della nuova legislatura».
L’opposizione strilla ma non sembra in condizione di fare controproposte credibili. Non pensa che il vero nemico del centrodestra sia il rischio di una crescita rattrappita, roba da 0,5-0,6%?
«Come dicevo, penso che il rischio di una crescita asfittica sia oggi il principale rischio per il paese. In assenza di ritmi di crescita adeguati potremmo buttare al vento lo sforzo di aggiustamento di questi anni e ripiombare nella instabilità sistemica che abbiamo ben conosciuto. Potremmo tornare a coltivare l’illusione - ampiamente sperimentata senza risultati (come era facilmente prevedibile) nel recente passato - che la crescita sia nascosta nelle pieghe del bilancio. Con il risultato di ritrovarci, come è accaduto fino a tre anni fa, senza crescita e con un bilancio pubblico dissestato».
Per ora c’è stata una gestione intelligente ed efficace del grande debito pubblico italiano. Si può fare qualcosa in più secondo lei? È ipotizzabile la ripresa di una operazione patrimonio contro debito per ridurre lo stock complessivo di debito?
«Sarebbe altamente auspicabile. Ma questo è un campo in cui è bene essere realisti. Sarebbe già un grosso risultato se centrassimo l’obbiettivo 20 miliardi di privatizzazioni, se ricordo bene - che ci si era posti all’inizio della legislatura. Siamo ancora lontani da quel risultato. Ma possiamo ancora avvicinarci. L’uscita dal comparto bancario mi sembra prioritaria. Servirebbe, come ho detto, anche a rafforzare il ruolo dello Stato come regolatore. Ma altre possibilità non mancano e andrebbero perseguite. Sottolineo, non solo dallo Stato ma anche dalle Regioni e dagli Enti locali. Sostituendosi a queste ultime, senza esitazioni, se e quando necessario. Anni fa abbiamo irragionevolmente trasferito loro parte del patrimonio pubblico ma non parte del debito. E il federalismo o è responsabile o non è».
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