Feltri: “rinnamorarsi” a 87 anni. Il miracolo in un mondo dove l'amore è in disuso
L’amore è in disuso, lo dico con rammarico. Le cronache grondano sangue. I dibattiti televisivi scivolano facilmente nell’invettiva e nelle strade bisogna stare attenti ai rivoli di livore e odio che corrono nel traffico impazzito e si allungano nelle periferie scalmanate. Basta un niente per far rissa e uscirne con le ossa rotte. Persino certe mamme si sono prosciugate. Per follia, malvagità o perché l’amore materno è un tantino sopravvalutato, arrivano ad ammazzare i loro figli (l’amore per definizione) quando sono bambini o solo neonati. Sarà per questa aridità di tempi e di costumi che mi sono appassionato a un libro di un regista che stimo molto, pur non avendolo mai frequentato, Pupi Avati. Già il titolo mi ha intrigato assai, «Rinnamorarsi». Se lo pensa un autore che di anni ne ha 87, figurarsi se non posso pensarlo io che ne ho qualcuno in meno. Pupi racconta che l’innamoramento ha una sola età, l’adolescenza, quando il pensiero è pieno dell’amata e ogni incombenza pare superflua di fronte al sentimento travolgente. Ma poi ammette candidamente di essere tornato a quell’ardore giovanile e si rivede giovanotto sotto i portici di Bologna. Erano i tempi in cui l’ora del pranzo profumava di tortellini al ragù e i bambini usciti da scuola giocavano a nascondino con i piccioni. Una ragazza bellissima camminava svelta davanti a lui. Si chiamava Nicola, nome insolito. La volle, la conobbe, gli esplose nel cuore e non fu più lui. «Rinnamorarsi della stessa donna che hai incontrato e scelto più di mezzo secolo fa», cosa esiste di più bello?
Certo, ammette il regista, c’è il pudore della vecchiaia… non ci si abbraccia e non ci si bacia più. Il solo contatto fisico sembra impresa improba e muscolare. Ma è un amore pieno che rivendica il presente e l’orgoglio delle parole: «moglie» e non «compagna» di una fuitina; «amore per sempre» e non «finché dura», perché il sentimento sia puro e tocchi le stelle. Mi sono commosso come un bambino. Un’esaltazione così sfrontata e orgogliosa di uno stato dell’animo mortificato e banalizzato dal fervore di questi tempi fluidi e dagli amorazzi social che finiscono in un battito di ciglio, ha un che di ardimentoso e oserei dire ribelle. Sarà che l’età matura ci porta a dire quel che pensiamo senza tema di giudizio, ma ho trovato esemplare l’ammissione di «colpa». «Non è demenza senile», sorride Avati, è «l’ineffabile» di un vivere che ci sorprende fino all’ultimo respiro. Esimi protagonisti del nostro tempo si sono immersi d’altronde nella pratica amorosa con un entusiasmo travolgente, e avevano tutti superato l’età degli ardori. Massimo Cacciari, il filosofo «necessario» dei salotti televisivi, si sposerà per la prima volta a 81 anni. Diceva che bisogna aver letto Nietzsche per capire cosa significa dire sì davanti a un prete in tonacaccia. E domandava all’uditore attonito se avesse scavato a fondo nell’anima e trovato tutte le risposte a quell’anelito di unione eterna. Poi ha scavato a sua volta nel silenzio dell’incedere quotidiano e ha mollato i riverberi dell’io e dell’umano per lasciarsi trasportare da Chiara, più giovane di lui, che gli tiene testa e cuore come pochi al mondo. Un altro vecchio avvinto dall’amore è Reinhold Messner, l’eroe delle mille vette. L’uomo che ho meno invidiato al mondo per quel suo cruccio di sfidare l’impossibile e consumare le suole e l’ossigeno in scalate folli, ai limiti dell’umano, ne ha fatta finalmente una giusta: è volato in India per prendere in sposa la sua amata Diane una seconda volta. «È stato magico e mistico», ha detto, «perché nella solitudine diamo il meglio di noi». In fondo cos’era l’amore di Dante per Beatrice se non sublimazione dell’anima che punta al divino e trascende il terreno? Fin troppo etereo per la mia esperienza dell’amore. Ci si innamora per bisogno, per completarsi, per trovarsi, per abitare un posto nel mondo e una ragione. Ma non esiste un’età giusta e una sbagliata per farlo. Lo comprendo.
C’è la strana abitudine di considerare noi vecchi meno di niente. Incapaci di ragionare, di difenderci, di gestire le giornate, figurarsi amare una donna. Fantasmi incattiviti che aspettano la morte senza provare più nulla. Come se le rughe della pelle e il passo lento che rallenta le incombenze segnassero davvero la consunzione dello spirito. È imbecillità, all’ennesima potenza. In questo tramonto allungato che è la mia vecchiaia, ho il cuore vigile e desto come non mai e torno all’essenza delle cose. Tutto nella sua immensa fragilità mi appare prezioso e mi emoziona, un gatto ciccione, un quadro dimenticato, le note del pianoforte nella quiete della sera. Una poetessa di Milano che abitava i Navigli, fumava come un turco ed era matta come me scriveva una verità universale: «C’è un posto nel mondo dove rimani senza fiato per quanta emozione provi; dove il tempo si ferma e non hai più l’età. Quel posto è tra le tue braccia in cui non invecchia il cuore, mentre la mente non smette mai di sognare». Ho conosciuto anch’io l’amore adolescenziale. Era una brezza leggera che faceva fremere i polsi e balbettare nella vicinanza dell’amata. Ma ora cammino da una vita accanto alla mia Enoe e mi reputo fortunato. Mi accorgo che parlo di lei ogni volta. Perdonatemi, non è demenza e neppure il vezzo del poeta ispirato dalla musa. È un bisogno. La conobbi al brefotrofio di Bergamo dove andavo a lavorare come impiegato per mantenere le mie gemelle. La mia prima consorte era morta di parto e io mi sentivo solo al mondo. Enoe era gentile e intelligente, con gambe bellissime e una mente svelta. Ci incontrammo e fu un’unione vera. Provo una gratitudine immensa per lei e un bene smisurato. A lei basta guardare la mia faccia smagrita. A me sentire il suo passo svelto in cucina o il rimescolare sommesso dei suoi rimbrotti che interrompono il cinguettio dei passeri in giardino. Si preoccupa perché non mangio, io le dico che quel poco mi basta e avanza. Una volta raccontai in un’intervista che il nostro è un rapporto di mutuo soccorso. Non so se ha ascoltato e compreso quella definizione. Ma volevo racchiudere in essa la mia concezione dell’amore: aiutarsi reciprocamente ad affrontare il mondo, o forse solo ad esistere. Ancora oggi che ho i capelli bianchi, la chiamo spesso al telefono e le dico «micia» perché è l'appellativo che più amo. E perché i mici sono gli esseri che più comprendo dopo di lei. Credetemi, c’è una tal penuria d’amore da queste parti della storia che la vera rivoluzione l’ha fatta Avati. Rinnamorarsi a 87 anni. Non si è cretini ma semplicemente vivi.
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