Feltri: le carceri disumane e quella sentenza che misura il giudice strampalato
Volevo scrivere dell’uomo più potente della terra e invece mi sono imbattuto nell’ultimo degli ultimi, chiuso dentro una cella grande come il mio ripostiglio. Storia semplice di un’umanità disperata, ma se non parti da lì dove vai. Il signore in questione è un detenuto del carcere di Bollate, nel milanese, l’eccellenza in tema di detenzione ma pur sempre un istituto di pena, dove il tempo scorre lento e la giornata si misura in centimetri di aria, pavimenti da grattare, insulti da filtrare e che il letto sia ben fatto per non fare incazzare il vicino. È dentro per reati comuni, roba di droga, soffre di cardiopatia, brava persona se può esserci una gerarchia del bene anche dietro le sbarre. Gli arriva la notizia che suo nipote, appena 40enne, è crepato di infarto. È il figlio della sorella, forse un po’ figlioccio anche per lui. Le esequie sono il 12 settembre a Cassano D’Adda, una trentina di chilometri dal carcere di Bollate. Pare semplice, che ci vuole. Chiede il permesso di andare ai funerali. Fa le pratiche da solo, presenta l’istanza. E si mette in trepida attesa nella cella dove non succede mai niente. Cambio di scena: camera ardente. Il lento viavai dei pochi amici e parenti. Dico pochi perché eccetto per i ricchi, la fila si assottiglia al momento di congedarsi dal mondo. C’è il brusio composto del dolore che indaga sui dettagli del defunto, sfrucuglia i ricordi e li blandisce. Il personale delle pompe funebri però ha fretta, anche la pietas tiene un orario e un cartellino da timbrare. Il feretro del poveretto verrà chiuso alle 14 e un’ora dopo ci saranno i funerali.
Il detenuto freme, compulsa il suo avvocato, che a sua volta sonda il terreno, chiama gli uffici e riceve comunicazione che il permesso è stato rigettato dal giudice di sorveglianza perché mancano i documenti che confermerebbero il rapporto di parentela tra defunto e detenuto e le prove che avessero una relazione affettiva continuativa. Non è un’invenzione alla Checco Zalone. È il linguaggio ispido della giurisprudenza. L’avvocato chiama, chiede lumi, la burocrazia incespica, annaspa. Aspetti, verifichiamo. Aspetti, le passo l’ufficio competente... poi quando il quadro si chiarisce il legale avverte il detenuto e i famigliari del morto che, col morto adorato già infilato nella bara e vestito di tutto punto (il corpo ancora caldo, si diceva un tempo), chiudono il dolore in un fazzoletto, prendono baracca e burattini e vanno in Comune a richiedere il documento di comprovata parentela. Fila agli sportelli, numerino, affanno, però l'ufficio comunale - non meno del carcere - si fa umano e produce le carte. «Cosa fatta capo ha», pensano i signori, dio deve aver guardato giù. Invece no, perché chi la proverà questa relazione affettiva? Chiede il magistrato. Già, chi la proverà? Oddio state scherzando? Forse che l’amore lascia contratti, scartoffie, fotografie e si può passare ai raggi x? La prova scientifica non c’è ma l’avvocato è fiducioso e pensa che basti il buonsenso. Il morto è nell’elenco dei parenti autorizzati alle visite, ovvio che i due avessero un rapporto. Invece no. Invece no. Invece no... !!!!! Le prove, ci vogliono le prove! La mente vacilla, il cuore rimbomba. Oddio, ci sarà pure un cuscino, una foto, un giubbotto condiviso, o un piatto di pasta consumato in due e mai buttato, che in 15 minuti esatti certifichi la relazione affettiva e porti il giudice di turno a comprendere che l’infartato e il malato di cardopatia erano legati da parentela, affetto, amicizia?
È andata come pensate. Il magistrato non ha ascoltato un fico secco. Per lui lo zio cardiopatico e il nipote infartuato non avevano altro legame che quel cuore debole. Perché dunque consentire a un poveretto rinchiuso in una cella soffocante di dare l’ultimo saluto al congiunto, alla sorella che lo piange, e a una famiglia che magari gli vuole bene? Già, perché? Umanità? Vi dice qualcosa la parolina? Possiamo fregarcene come fanno tutti quanti, perché i galeotti sono solo delinquenti e non val la pena di sprecare un pensiero, figurarsi la parola. Oppure rivoltarci sulla sedia e contestare la leggina canaglia. Come ha fatto forse l’avvocato. Come fa Alemanno col suo diario dal carcere che è un piccolo capolavoro. Io mi limito alla lettura dei numeri. 55 detenuti morti suicidi da gennaio. Tre erano donne e c’era pure un ragazzino di 17 anni. Le carceri sono sovraffollate. Le condizioni inumane. Non gira l’aria. Non gira la speranza. Se sei delinquente vero, ti perdi e non torni più. Se sei recuperabile, ti perdi lo stesso e affondi perché il male è una gramigna e a furia di rimestare nel fango ti contagia. Il buffo della storia è che per un povero cristo sincero cui negano i funerali del nipote ci sono migliaia di non detenuti (innocenti mi pare troppo) che fanno la coda dietro la salma di sconosciuti: lacrime di plastica, parole sceme, ma tutti in prima fila con gli occhialoni neri e i buoni ricordi. Il dolore non si prova. L’amore neppure. Ma l'insensibilità di un giudice strampalato, quella sì che si misura. Basta una sentenza.
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