
Roma, se una notte un cercatore errante di taxi

Canto notturno di un cercatore errante di taxi a Roma. Lungi da me scomodare Giacomo Leopardi per fatto personale, oltretutto trattandosi di materia tutt’altro che filosofica. Ma è proprio in quel pastore nomade asiatico che guardando la luna di notte avvia una riflessione esistenziale che mi sono rivisto mentre percorrevo, a piedi, il tragitto che mi separava dalla casa di amici che mi avevano ospitato a cena al primo taxi utile che mi portasse alla mia di casa. Era mezzanotte e trenta, sulla città era caduta qualche ora prima una specie di bomba d’acqua che aveva, al solito, provocato disagi inenarrabili alla circolazione (ingorghi stile Mumbai, che per i boomer come me resta sempre Bombay). E già allora, alle 21.30, trovare un taxi a largo Chigi, pieno centro della Capitale, era stata un’operazione da non meno di trenta minuti. Nulla di paragonabile, però, a quanto sarebbe accaduto tre ore dopo.
Chiamate vane alle varie sigle di taxi romane, attese prolungate con esito scontato: «Siamo spiacenti, al momento non abbiamo taxi disponibili». E il tanto sbandierato 060609? E l’app collegata? Stesso esito. Da lì la decisione drastica: a piedi alla ricerca di un’anima pia vestita da tassista. Niente da fare, di auto bianche neanche l’ombra, neanche davanti agli hotel di via Veneto, dove però c’erano i classici del «dottò, un bel localino?». Fino all’oasi nel deserto: largo Chigi, quello della partenza. L’accoglienza dell’unico tassista presente: «Dottò, a Roma quanno piove nun prende gnente, manco er telefono». La mia risposta? Telefonata: «L’unica cosa che non si prende è il taxi».
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