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Pride, Pd e Salis: dei diritti e delle pene, questo progresso è fake

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Tommaso Cerno
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Se Marco Pannella, Loris Fortuna o Renzi avessero fatto come la sinistra di adesso, in questo Paese non ci sarebbero né divorzio, né aborto, né unioni civili. E non ci sarebbero quindi nemmeno bufale come quelle del G7, quando per dare addosso al governo (in clima di rissa parlamentare permanente) ci si inventa che l’Italia arretrata della destra vuole smantellare i diritti civili di donne, uomini, gay e tutta la tiritera di acronimi delle sigle moderne. Io vedo tutto un altro film. E cioè che il Pd ha smesso di battersi per i diritti davvero, cioè con l’obiettivo di ottenerli e non solo di rivendicarli, da quando nell’aula del Senato sotto la guida di Enrico Letta si scelse coscientemente di non tentare una mediazione con Forza Italia sul Ddl Zan perché al Pd conveniva che non passasse, in quanto avrebbe generato un eroe, lo Zan Alessandro, e una bandiera da rivendicare in campagna elettorale. Una scelta legittima ma sbagliata, che di fatto mette la parola fine alla lunga stagione delle riforme per piccoli passi, che diventano – dopo aspri dibattiti – patrimonio collettivo di un Paese che cerca di andare avanti unito.

 

 

La stessa scelta che fece Renzi, ponendo la fiducia sulle unioni gay, che diventarono legge fra le critiche di una sinistra che si presentò a dire in televisione che quella di due uomini o due donne che uscivano sposati dal Municipio del paese sarebbe stata una vittoria di Alfano. Una bugia pronunciata con sincerità, perché annunciava la nuova rotta del post riformismo: la natura commerciale, ovvero elettorale, dei diritti di tutti. La nuova deriva del finto progresso. La morale della storia: Elly Schlein balla sul carro di un Pride che, però, esclude gli ebrei dalla sfilata. E si schiera sulla guerra a Gaza discriminando l’unica democrazia del Medioriente dove l’omosessualità è legale. Mentre drappelli di sedicenti democratici sostengono i capi di una organizzazione terroristica antisemita e islamista come Hamas, finanziata da Paesi che impiccherebbero a una gru ognuno dei partecipanti alla parata, chi vi scrive compreso. Non bastasse, una pluripregiudicata, Ilaria Salis, viene candidata ed eletta all’Europarlamento per sfuggire a un processo utilizzando quell’immunità parlamentare che abbiamo sentito dileggiare da grillini e alleati come il male incurabile della politica.

 

 

Con la ciliegina sulla torta del papà che prima insulta Giorgia Meloni chiamandola Nano Mammolo (a proposito: le femministe, che ci massacrano là sotto ogni giorno per qualunque vocale maschile infilata in una frase, improvvisamente ammutolite dallo charme di codesto signore, tacciono come educande al vespero) e subito dopo scarica il leader del suo partito, Nicola Fratoianni, che ha candidato la figlia, spiegando che non la pensa come lui. Se questi sono i presupposti del nuovo progressismo europeo non mi meraviglia affatto che nelle due famose culle della cosiddetta democrazia, Germania e Francia, la destra avanzi. Né che Ursula von der Leyen, benché stia simulando il bis della famosa maggioranza che portò il suo nome, quella del monoteismo green e dell’impoverimento di mezza Europa, in ginocchio sulle guerre e ininfluente in tema di tassazione dei colossi high tech, stia al contrario cercando la quadra per cambiare, un po’ come fu per Giuseppe Conte quando – senza che nessuno dicesse beh – passò in poche ore da leader del governo gialloverde a quello giallorosso, traslocando dalla Lega di Salvini al Pd di Enrico Letta. Il famoso modello italiano della nuova Europa.

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