l’intervento di Paragone

Paragone: se la paura di una donna che allatta svanisce grazie al film di Albanese

Gianluigi Paragone

Prendi una statua con una donna che, seni scoperti, allatta un infante. E poi prendi un sindaco di una città cosiddetta cosmopolita, Beppe Sala. Agita il tutto ed esce fuori il disordine. Prendi un film che parla di maestri sottopagati, di una scuola a rischio chiusura e di una comunità che capisce il valore di quel «Mondo a parte». E poi due bravi attori, Antonio Albanese e Virginia Raffaele. Agita il tutto ed esce fuori l’ordine. Partiamo dal disordine. La statua della donna che allatta, secondo una commissione ad hoc, non è idonea alla esposizione pubblica perché potrebbe disturbare una non so quale comunità perché rappresenta valori «certamente rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini» pertanto «sconsigliamo l’inserimento in uno spazio pubblico» e suggeriscono l’idea di «donarla a un istituto privato, ad esempio un ospedale o un istituto religioso, nel quale sia maggiormente valorizzato il tema della maternità, qui espresso con sfumature squisitamente religiose». E infatti adesso - sempre per non disturbare nessuno - si indica la clinica Mangiagalli come «deposito» privilegiato di una statua evidentemente imbarazzante.

 

 

Confesso che trovo tutto questo orribile, deprimente, culturalmente sconfortante. E trovo l’atteggiamento pilatesco del sindaco di Milano inzuppato di ipocrisia e codardia. Non è una questione di censura, né è una questione milanese. È una questione identitaria. Davvero il sindaco di una città, a maggior ragione una città politicamente pesante, conta meno di una commissione? Suvvia. Sala è il campione della sinistra woke, quella che si ritiene «migliore degli altri», più avanti degli altri perché globalista e liberal-progressista; egli rinnega valori che erano ampiamente condivisi tra gli italiani fintanto che il relativismo ha infettato le nostre anime e certi interessi economici decidono il senso della società. Parcheggiare alla Mangiagalli o al Senato quella statua significa indietreggiare rispetto alla cultura woke, significa aver paura di decidere e di generare caos, confusione, disordine.

 

 

E arrivo allora al film con Albanese e la Raffaele, una fotografia di quell’Italia fatta di piccoli paesi, di tradizioni, di comunità lontane dai centri. Quell’Italia a cui l’arrendevolezza verso le politiche dei tagli ha tolto scuole e sanità. Allora quando togli il bene collettivo, i paesi si svuotano; le scuole vanno chiuse perché non ci sono abbastanza bambini e insegnanti sufficienti. A cosa serve la spesa pubblica se non garantire che la scuola, la sanità, la corrente, l’acqua, il trasporto pubblico, le infrastrutture, raggiungano i paesini di montagna e coprano anche quei cittadini? Antonio Albanese compie, come già nel precedente film sui truffati dalle banche, un esercizio di recupero di ciò che dovrebbe essere difeso: il lavoro, il risparmio, la scuola, la sanità. Lui e Virginia Raffaele ci regalano un film (che sta andando molto bene) che restituisce il senso dell’ordine, delle priorità, dei beni comuni, smontato dal disordine neoliberista. Sono scelte e ci vuole coraggio per difenderle.