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Abruzzo, l'effetto Sardegna non esiste: due i problemi

Tommaso Cerno
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Tutti i salmi finiscono in gloria. L’Abruzzo conferma Marsilio, e Giorgia torna Giorgia. Addio effetto Sardegna, ora si pensi alle Europee. E noi, se Dio vuole, possiamo tornare con i piedi per terra. Se c’è una lezione che vale la pena di imparare dai Cinquestelle, ma pure dal Nord-est di Max Fedriga e Luca Zaia, è che gli italiani non sono fessi. Vanno a votare per quello che c’è scritto sulla scheda. E tanto in Sardegna quanto in Abruzzo sulla scheda c’era scritto governatore. Lo fanno da sempre. Con la naturalezza della democrazia vissuta, che ci dice Abruzzo è Abruzzo, Sardegna è Sardegna, carbonara è carbonara e arrosticini sono arrosticini. E lo sa bene pure il Pd di Elly Schlein che, se stava ai dati delle amministrative dell’era di Enrico Letta, con la reconquista di Milano e Roma in pompa magna, avrebbe dovuto prendere tanti di quei voti alle politiche che a palazzo Chigi ce lo facevano entrare dal tetto. E invece, come sappiamo, non è andata così.

 

 

In virtù di questo semplice dato di fatto, tanto la sconfitta di Truzzu non è stata affatto la diga abbattuta da chissà quale remuntada progressista, idem l’Abruzzo - pure se non avesse vinto Marsilio, ma tant’è- non ci dice nulla sul governo e tantomeno sulle Europee che si aprono, di fatto, oggi. E dove le regole non solo cambiano, ma in pratica si rovesciano, passando al sistema proporzionale che metterà tutti contro tutti. Non è una novità che il centrodestra sia forte, ma non imbattibile. Non è una novità che la sinistra, quando trova un candidato che la unisce, può essere competitiva. Anche se ieri alla fine non lo è stata. Non è una novità nemmeno che Giorgia Meloni abbia la necessità di dare forma compiuta all’evoluzione della coalizione fondata trent’anni fa da Silvio Berlusconi e che questo progetto politico, mentre stai al governo di questi tempi, con pochi soldi e mille grane, non sia una passeggiata di salute. Soprattutto a pochi mesi dal voto per il nuovo Parlamento di Strasburgo e per la commissione europea, con due alleati - la Lega di Matteo Salvini, in crisi di consenso, e Forza Italia orfana di Silvio Berlusconi - che si giocano la partita della vita.

 

 

E se Atene piange, Sparta non ride. Perché la stessa aria tira anche a sinistra, dove la partita identitaria è perfino più dura. In gioco non c’è, come a destra, il secondo posto nella coalizione, ma il primo. Perché Giuseppe Conte non ha affatto ipotecato l’idea di riuscire nel miracolo di scavalcare Elly Schlein. Questo è il film che sta per cominciare. Soprattutto sui temi globali: Israele e Palestina e tutto ciò che ne consegue. Dall’odio antiebraico che emerge dalle aree più radicali fino alla grande questione pacifista, che Conte sta interpretando da tempo, frenando (a parole) sulle armi per Ucraina e Tel Aviv. Salvo poi (nei fatti) votare a favore, per non vedere ipotecata per sempre la poltrona che sogna tutte le notti. Quella di Palazzo Chigi. In tutto questo, ci si mette Matteo Renzi a menare la danza. Con la sua uscita anti-Ursula che serve a cancellare la figuraccia del forfait di Nordio all’ultimo minuto. E a flirtare con quel pezzo di Italia (sia a destra che a sinistra) che non ne può più di questa Europa. Del Green deal pagato sempre dalla gente che lavora. E del futuro fatto di tassi, inflazione e austerità. E lui, che di politica ci capisce, spara per primo.

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