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Privatizzazioni, Minzolini applaude la linea Meloni: un approccio da buon capo di una nazione

Augusto Minzolini
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In fondo anche nelle privatizzazioni - totem per molti e figlie del Male per altri - quello che conta è seguire il buonsenso. L’errore è come al solito farne una bandiera ideologica, in quel caso lo Stato rischia solo di rimetterci e non poco come è già successo. Ma se quei 20 miliardi di cui ha parlato la premier arriveranno mettendo sul mercato azioni di aziende il cui controllo continuerà a restare nelle mani dello Stato o in altre cedendo quote di minoranza, non si tratta di una svendita ma solo di un modo per fare cassa che ha una sua logica nella particolare congiuntura economica che stiamo attraversando. E in fondo è anche questa una rivoluzione per quella destra sociale che ha sempre considerato le privatizzazioni tout court come il diavolo. Un approccio anche questo ideologico per cui sbagliato. Invece, che lo Stato si ritiri da certi settori non considerati strategici non è solo un bene ma è un dovere per chi ha un’idea liberale dell’economia ed è attratto dalle posizioni che a livello internazionale hanno i partiti conservatori. Ad esempio che senso ha che lo Stato sia presente attraverso Invitalia o Cassa depositi e Prestiti nel settore dolciario, nel turismo o nella ristorazione come avviene oggi? Ci sono settori in cui la presenza della mano pubblica è difficile da spiegare.

 

 

Poi c’è un’altra questione, quella più paradossale che ci contraddistingue rispetto ad altri Paesi e riguarda il criterio e la lungimiranza con cui i governi decidono di vendere aziende o pezzi di esse. Purtroppo qui emerge l’ideologia delle privatizzazioni che ha presieduto a certe operazioni che sono servite solo ad arricchire dei privati a cui è stato permesso prima di comprare e poi di rivendere allo Stato generando delle plusvalenze astronomiche (vedi la vicenda Autostrade della famiglia Benetton). Ecco vicende del genere sono francamente inammissibili e purtroppo chiamano in causa specie i governi di centro-sinistra da Prodi e D’Alema in poi (Telecom, Ilva, Autostrade). Simili operazioni gettano un’ombra sulle privatizzazioni e le trasformano in «partite di giro» difficili da spiegare. E spesso avvengono perché lo Stato non svolge quella funzione di controllo che gli spetta: se vendi Autostrade che è una concessione pubblica e non vigili sul fatto che il privato sia adempiente nelle opere di manutenzione concedendogli un aumento tariffario quasi a fondo perduto, è evidente che se poi capita una tragedia come il crollo del Ponte Morandi sull’onda emotiva sei costretto a ricomprare. Insomma, ti scavi la fossa da solo. E torniamo, appunto, al buonsenso.

 

 

Le privatizzazioni non sono di per sé belle o brutte. Non sono il Paradiso ma neppure l’Inferno. Un privato può vendere i propri beni pensando, soprattutto, al proprio tornaconto. Può anche vendere le proprie aziende, emigrare e pagare all’estero le tasse se sono scelte che gli convengono e difendono i suoi interessi. È più che lecito basta che poi non faccia la morale (Carlo De Benedetti è il capostipite dei grilli parlanti). Un governo, invece, deve vendere i beni di Stato non per una convinzione ideologica ma soprattutto coniugando queste decisioni con il bene del Paese per l’oggi e per il domani. Non è in ballo l’interesse del singolo dove l’intento è soprattutto speculativo, ma sono in gioco gli interessi generali per cui l’approccio deve essere quello del buon capo famiglia, pardon, del capo di una nazione.

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