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Patrimoniale feticcio della sinistra contro il ceto medio

Riccardo Mazzoni
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La convergenza di vedute tra l’ex ministra Elsa Fornero e il Pd sulla patrimoniale non deve sorprendere, perché l’intesa fra tecnocrati e sinistra viene da lontano: prima delle elezioni del 2013, infatti, il punto programmatico che unì Bersani a Monti fu proprio questo, e l’allora premier uscente fece trapelare di stare studiando una «patrimoniale generalizzata». Ora ci risiamo, con la fortuna per gli italiani che si tratta solo di un dibattito politico-accademico, visto che il centrodestra al governo è compattamente contrario ad alzare le tasse. Che la patrimoniale sia una scorciatoia iniqua e inutile è facilmente dimostrabile: prima di tutto colpisce beni già tassati e si tratta quindi di tassare due volte, cosa in teoria vietata dalla Costituzione; deprime la crescita e il valore dei beni immobili e non ha effetti strutturali; blocca gli investimenti e i consumi riducendo la liquidità disponibile; in un Paese ad altissima pressione fiscale un ulteriore prelievo sul risparmio scalfirebbe ancora di più il patto sociale tra cittadino risparmiatore e istituzioni, aumentando evasione ed elusione fiscale. Le ragioni che sconsigliano il ricorso alla patrimoniale sono dunque innumerevoli, ma la sinistra è solita abbinare questa parola magica a un altro mantra ideologico: quello della «redistribuzione», che sconta però un’evidente distorsione logica, perché senza crescita non ci sarà alcuna possibilità di redistribuire risorse. Il bersaglio di questa politica è sempre stato il ceto medio, l’antica e vituperata borghesia che oggi però, dopo venti anni di crisi, si è profondamente impoverito, e tartassarlo ulteriormente significherebbe provocare un disastro sociale. Nel programma per le primarie del Pd, Elly Schlein ha proposto una patrimoniale per i più ricchi, ma sarebbe ingeneroso imputare solo all’attuale segretaria questo pregiudizio contro la classe media, perché in realtà si tratta di una linea in perfetta continuità con i suoi predecessori. Basta rileggere il programma elettorale presentato da Letta e dai suoi alleati alle ultime politiche, tutto intriso di assistenzialismo (da uno stipendio netto in più l'anno all'integrazione pubblica della retribuzione in favore dei lavoratori a basso reddito, dall’aumento dei beneficiari della quattordicesima ai diecimila euro ai diciottenni) finanziato da una maxi-patrimoniale a carico dei soliti noti che non possono sfuggire alla mannaia del fisco.

Considerare patrimoni da un milione di euro e i risparmi di una vita come ricchezze da espropriare riflette una concezione punitiva della proprietà privata, ma è la vecchia concezione ideologico-punitiva nei confronti della ricchezza tanto cara alla sinistra con pervicace ostinazione. L’esperienza insegna che, ovunque applicata, la patrimoniale non ha mai funzionato (in Francia il gettito si è addirittura ridotto), visto che punisce indiscriminatamente proprio i ceti medi che sono storicamente i diretti intestatari dei beni posseduti, siano essi immobili o risparmi, mentre grazia i grandi possessori di ricchezze, ed è quindi l’esatto contrario del principio di solidarietà sociale che si dice di voler perseguire. Il tema dell’equità è una questione vera, ma non si affronta con misure demagogiche che colpirebbero chi ha risparmiato facendo salvo chi invece ha sperperato il suo patrimonio. L’assistenzialismo senza limiti che la sinistra ha accentuato da quando ha scelto di coniugare lo statalismo d’antan alle utopie grilline è una sorta di pozzo di San Patrizio insostenibile per le casse pubbliche, facendo ricadere il costo della solidarietà sociale sui contribuenti dando così la mazzata finale proprio a quel ceto medio su cui lo Stato deve invece puntare per far ripartire il Paese. 

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