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Kosovo, escalation di violenza con cinque morti. Perché l'italia deve proporre un piano per i Balcani occidentali

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Gaetano Massara
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E’ di cinque morti il bilancio degli ultimi scontri tra albanesi e serbi in Kosovo. La domenica di violenza è iniziata intorno alle tre nella municipalità di Banjska, nel Nord Kosovo a maggioranza serba, quando una pattuglia di polizia accorsa nei pressi di un ponte bloccato da due camion senza targa verosimilmente parcheggiati da serbi come spesso accaduto in passato è stata investita da spari che hanno ucciso un poliziotto. Il commando di una trentina di serbi si è quindi diretto verso il vicino monastero serbo-ortodosso barricandosi al suo interno e scambiando colpi di arma da fuoco con le forze albanesi-kosovare, che hanno ucciso quattro serbi prima di mettere in fuga il gruppo e riprendere il controllo del territorio. Al di là degli scambi di accuse reciproche a fini propagandistici tra il Presidente serbo Aleksandar Vucic, che mira a stravincere anche le prossime elezioni, e il primo ministro kosovaro Albin Kurti, in calo di popolarità e accusato di intransigenza dagli alleati occidentali, l’episodio è il nuovo apice in una pericolosa escalation di tensione.

Il Kosovo è stato un protettorato internazionale sotto egida ONU dal 1999, quando la NATO intervenne a difesa della maggioranza albanese ponendo fine alla sovranità della Serbia. Nel 2008 Pristina dichiarò la propria indipendenza, che non è ancora riconosciuta da Belgrado e da un centinaio di Stati, tra cui Russia, storica protettrice dei serbi, Cina e cinque membri dell’UE. Per facilitare la normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina, nel 2013 l’UE mediò l’accordo di Bruxelles che prevede la costituzione dell’Associazione delle municipalità serbe del Kosovo, con un ampio grado di autonomia all’interno dello stato kosovaro. Pristina ha finora rifiutato di creare l’Associazione temendo che sarebbe il prodromo della secessione. Delle 10 municipalità serbe del Kosovo, infatti quattro sono nel Nord e confinano con la Serbia, la quale vi governa de facto. Per affermare la propria sovranità sulle municipalità a maggioranza serba, l’estate dell’anno scorso Kurti ha emanato un provvedimento che obbliga i residenti a a sostituire le targhe automobilistiche emesse da Belgrado con quelle rilasciate da Pristina. I serbi del Nord Kosovo hanno reagito con le dimissioni in massa dei circa 3.000 funzionari di etnia serba dalle istituzioni dell’ex-provincia. Le elezioni municipali dell’aprile scorso per l’elezione di nuovi consigli nel Nord Kosovo hanno portato all’elezione di sindaci kosovaro-albanesi nonostante un’affluenza del 3,5 percento dovuta al boicottaggio da parte dei serbi. Per protesta contro l’insediamento dei neo-sindaci, che i serbi e la comunità internazionale non ritengono rappresentativi, questi ultimi hanno presidiato i municipi, dove i sindaci hanno potuto insediarsi solo grazie al dispiegamento delle forze speciali di Pristina. Ciò ha portato agli scontri di maggio, in cui 34 militari del contingente KFOR, tra cui 14 italiani, schierati per evitare il contatto tra serbi e albanesi sono rimasti feriti.

Mentre scriviamo la situazione è di calma apparente. Ma l’ulteriore escalation di domenica deve preoccuparci. Lo stallo nei negoziati tra Belgrado e Pristina sui poteri dell’Associazione delle municipalità serbe così come la non risolta “questione delle targhe” sono spade di Damocle sul mantenimento della pace. Gli sviluppi dello scontro tra armeni e azeri per il Nagorno-Karabakh potrebbero indurre i serbi ad azioni di forza in Kosovo del Nord. L’apertura di un nuovo fronte di guerra alle porte di casa, dopo quelli di Libia e Ucraina, con la Russia e la Cina schierate dalla parte della Serbia contro la Nato, sarebbe una grave minaccia non solo per i nostri 852 militari della KFOR a guida italiana. Gli assetti scaturiti dagli accordi che posero fine alle guerre di Kosovo e Bosnia-Erzegovina furono concepiti come assetti provvisori. Giorgia Meloni e il ministro degli esteri Antonio Tajani dovrebbero farsi promotori di una conferenza internazionale sui Balcani occidentali, in cui le questioni kosovara e bosniaca trovino una soluzione definitiva.

 

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