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La Francia schiaccia ancora le ex colonie. Paragone: Cuginastri, ora però abbassate la cresta

Gianluigi Paragone
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Mi viene da canticchiare Bartali, stupenda canzone di Paolo Conte avvitata tra donne scontrose, bei mazzi di rose e paracarri, sandali e nasi tristi come una salita e occhi allegri da italiani in gita. Già, è sempre un complesso di cose che fa sì che ci fermiamo qui a fare i conti con i soliti «francesi che si incazzano - lo dice lui lassù da Asti - e i giornali che svolazzano», impregnati di articoli sui rapporti tesi tra Parigi e Roma, con i cugini transalpini con il ditino alzato pronto a impartire lezioni. Nemmeno il tempo di farsi dare l'incarico dal presidente Mattarella che già Giorgia Meloni doveva fare i conti con le damine di Macron e la loro voglia di darci voti, giudizi, promozioni o bocciature. Forse anche perché quelli che piacciono a loro li premiano con le onorificenze: da D'Alema a Letta, da Tajani a Emma Bonino, i politici non mancano affatto. Sembrava finita e invece è bastato il solito bastimento carico di disperati, sulle rotte di mercanti di donne e uomini, a rimetterci sulla casella del Via. A loro dire noi non accoglieremmo, noi non rispettiamo gli accordi, noi insomma siamo i cattivi; mentre loro, i francesi, sono responsabili, europei e accoglienti. In queste ore la conta delle responsabilità e dei carichi non si è fatta attendere, ma stavolta hanno esagerato con l'inutile predicozzo; tanto che non è stato difficile ricordare cosa accade dalle parti di Ventimiglia o, ancora peggio, dalle parti di Calais dove le traversate oltremanica consumano le persone in condizioni di viaggio bestiali.

 

 

Ma questi fatti citati dai più non bastano per mettere a fuoco l'atteggiamento della Francia allorquando si parla di migrazioni e di flussi. Per decenni e decenni, il governo di Parigi ha sfruttato e sfrutta tuttora le sue ex colonie con politiche che non a caso vengono definite neocolonialismo. La Francia ha avuto per parecchio tempo e ha tuttora, per quanto allentato, un controllo diretto di molte sue ex colonie attraverso una moneta di proprietà della banca centrale transalpina, il franco Cfa, fonte di grandi dibattiti circa la reale autonomia di questi Paesi africani. Non solo, attraverso la moneta, l'economia francese imprime il suo segno con prelazioni e controlli che lasciano ben pochi margini di manovra ad altri soggetti imprenditoriali. Come dicevo poc'anzi, il dibattito su questa moneta che nasce dal colonialismo ha evidenziato come abbondanti aree africane siano state messe nella condizione di dover cercare fuori da questa stretta una libertà economica che garantisse di uscire dalla povertà; in poche parole, la Francia sta schiacciando tuttora le persone in Africa in una strana idea di francesità, esattamente come fa all'interno dei propri confini con gli emigrati e i loro figli. La rivolta delle banlieu che sconvolse l'Europa per la durata della ribellione, era la risposta di una generazione di «figli di nessuno» traditi dall'assimilazionismo e orfani delle identità o delle radici dei loro genitori.

 

 

La Francia vive nella contraddizione del voler essere un esempio di integrazione senza tuttavia che il successo di tale modello sia riconosciuto. Però loro si sentono vincitori e quindi titolari del diritto di giudicare gli altri. Ma non è così, infatti la reazione contro l'Italia nasceva proprio dalla esasperazione di chi (il sindaco di Tolone) non voleva aprire il proprio porto alla nave che il governo italiano aveva bloccato. La testata alla Zidane che il loro ministro dell'Interno Darmanin ha tirato al collega Piantedosi scaturiva proprio dal mal di pancia di provincie che fanno fatica a reggere la situazione. Pensare che l'Europa possa in nome del volemose bene modificare la situazione è una illusione: dovunque i cittadini non ne possono più delle tensioni generate dal non controllo delle società. Vale in Francia come in Italia. Alla Francia però ricordiamo che nelle sue ex colonie ha una responsabilità che altri non hanno.

 

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