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Portiamo sul mercato il lavoro pubblico

Mario Benedetto
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Nelle scorse ore mi sono trovato a commentare la storia di un sindaco che ha assicurato ai cittadini un servizio pubblico, guidando un bus, causa personale indisponibile.

A parte la storia originale che strappa un sorriso, anche se amaro, questa notizia mi ha fatto riflettere, più a lungo di quanto pensassi, sull’attuale stato dei fatti a livello sociale. È una storia di storie, che porta in sé una serie d’ingredienti alla base sia di molte situazioni critiche che sono venute a crearsi ben prima e ben oltre le emergenze pandemiche e belliche, sia delle possibili soluzioni per uscire dalle crisi stesse.

L’ultimo decreto aiuti ter ha destinato a comuni e città metropolitane ulteriori 200 milioni per fronteggiare la situazione emergenziale, a partire da quella energetica. Ne ha destinati 100 proprio al trasporto locale e pubblico.

Bene, quando in un comune, grande o piccolo che sia, i servizi non sono all’altezza o non funzionano, possono esserci molteplici ragioni, riconducibili però a precisi filoni come i seguenti: amministrazione della cosa pubblica da migliorare, per essere buoni; stato di regole da rivedere, anche qui per essere buonissimi. Da ultimo, cultura sociale, a partire dal quel sacro diritto che è il lavoro, il quale una volta ottenuto però, va ricordato, diventa contestualmente un dovere. È necessario che le amministrazioni diventino virtuose, dalle più piccole alle più grandi: purtroppo non è raro vedere in comuni anche importanti, ahinoi molto spesso dal centro Italia in giù, servizi non all’altezza. Per non dire assenti.

Roma capitale, nella complessità della sua gestione, né è lampante dimostrazione. Anche questo fa parte di quello che sta diventando normalità quando invece normale non è: di chiunque sia la responsabilità, non è normale fare lo slalom tra la spazzatura a pochi passi dal Colosseo. Non è normale vedere un sindaco guidare un mezzo pubblico, trasportando cittadini lasciati altrimenti a piedi. Non è normale vedere un trasporto pubblico, per restare in tema, afflitto da ritardi, cancellazioni o disservizi, che divengono parte integrante della giornata (lavorativa) di cittadini che contemplano questi disservizi nella «normalità» della loro quotidianità. Che non è normale. Chi è chiamato ad assicurare un servizio pubblico deve farlo, prima per dovere poi per deontologia.

È ora, dunque, che le dinamiche vissute dai lavori del cosiddetto privato, dalle partite iva, lavoratori chiamati a espletare mestieri anche usuranti facciano parte intanto di una quotidianità diversa, che garantisca loro migliori condizioni: dal costo del lavoro per le imprese, a tasse e prelievi che arrivano ad assorbire spesso oltre la metà dei guadagni per i lavoratori. Una normalità cui ci siamo abituati, ma che non è prettamente normale.

Detto questo, anche il lavoro «pubblico», la pubblica amministrazione, deve essere portata «sul mercato». Con un lavoro misurabile, sottoposto agli svantaggi delle legittime sanzioni in caso di inadempienze, così come alle gratificazioni delle premialità nei casi giusti e meritevoli. Una nuova cornice di regole, che stimoli un nuovo approccio «culturale».

Qui le tribù ci superano persino, con una visione solidale e collaborativa che spesso va oltre ogni nostro modello sociale «avanzato». Cultura, dunque, la parola che torna e ci ricorda che, oltre ad aspettarci ciò che legittimamente lo Stato ci deve, è anche da noi che parte la sua trasformazione, la sua evoluzione. Uno stato di diritto, che ci meritiamo e dobbiamo esigere, ma in cui, a essere modello di diritti e doveri, sia primo di tutto ciascuno di noi.

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