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Elezioni 2022, i sondaggi spesso ingannano. L'unica certezza è andare a votare

Riccardo Mazzoni
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Che i sondaggi non siano una scienza esatta è noto da sempre, e non potrebbe essere altrimenti in un'epoca post-ideologica in cui l'elettorato è sempre più mobile e quindi meno incline allo spirito di appartenenza che aveva caratterizzato tutta la Prima Repubblica e, nella seconda, la divisione manichea tra sostenitori e nemici di Berlusconi. La comparsa del grillismo ha scompaginato gli schemi, e il bipolarismo destra-sinistra ormai sopravvive solo a livello locale, grazie anche alla legge elettorale che prevede il ballottaggio. Mestiere sempre più difficile, quindi, quello dei sondaggisti, che fanno già tanto a fotografare a grandi linee le tendenze in atto in un Paese che registra tassi di astensionismo sempre più elevati, e gli stessi addetti ai lavori infatti hanno progressivamente alzato la soglia fisiologica del margine di errore. Ci sono almeno tre precedenti - le due ultime politiche e le Europee del 2014 che lo provano.

Nel 2013, quando si votò in pieno inverno, tutti i sondaggi prevedevano una netta affermazione del centrosinistra, esito improvvidamente confermato dai primi exit-poll, tanto che Bersani partì verso Roma certo di avere in tasca il pass per Palazzo Chigi: ci pensarono le proiezioni a gelare gli entusiasmi, fino alla «non vittoria» ammessa a denti stretti dal segretario del Pd. Prima delle elezioni il centrosinistra (Pd + Sel) veniva accreditato del 35-40% dei voti, mentre il centrodestra avrebbe dovuto fermarsi al 26-27%.

Invece alla fine ci fu un sostanziale pareggio, ma l'errore più clamoroso riguardò la sottovalutazione dei consensi grillini: non c'era sondaggio che attribuisse al M5s più del 17%, e superò il 25%, mentre il risultato della lista Monti risultò di molto inferiore alle aspettative. Un anno dopo, stesso copione: secondo tutti i sondaggi, il distacco tra il Pd (con Renzi che aveva sostituito Bersani al timone del partito) e i Cinque Stelle ondeggiava fra i due e i quattro punti percentuali, con una competizione intorno al 30%. Ebbene: questo presunto testa a testa si concluse col trionfo del Pd, che sfondò addirittura il muro del 40% arrivando addirittura a doppiare i grillini, per i quali era stato compiuto lo stesso errore di valutazione delle politiche, ma quella volta al contrario. Altro esempio: prima delle politiche del 4 marzo 2018, la media dei sondaggi dava il M5s al 28,1%, il Pd al 22,8, la Lega al 13,4 e Forza Italia al 16,1%, ma il risultato delle urne fu sostanzialmente diverso, perché i Cinque Stelle fecero un balzo inaspettato al 32,6%, i Dem scesero sotto il 19% e nel centrodestra ci fu il sorpasso di Salvini su Berlusconi. Anche in quel caso dunque, seppure con dimensioni più contenute, il divario tra sondaggi e realtà risultò abbastanza ampio: dei primi sei partiti, solo per Fratelli d'Italia la differenza fu marginale, mentre per M5S, Lega e Pd risultò pari o superiore a 4 punti percentuali.

Domani sera vedremo sei sondaggi questa volta avranno fatto centro: la frammentazione della sinistra e il meccanismo della legge elettorale non dovrebbero riservare sorprese, nel senso che il centrodestra unito parte in chiaro vantaggio nella grande maggioranza dei collegi, ma l'esperienza induce a una prudente attesa, soprattutto per la consolidata difficoltà di intercettare la portata dell'effetto tsunami che negli anni ha cambiato destinatario e che ora potrebbe premiare oltre le attese sia Fratelli d'Italia che, al Sud, la riscossa grillina. Per cui è bene non dare nulla per scontato, anche perché per garantire al Paese un governo stabile non sarebbe sufficiente una vittoria di misura: per cancellare le incognite e dare un senso compiuto alle previsioni dei sondaggi, insomma, l'unico vero antidoto è andare a votare, con l'auspicio che quello dell'astensione non resti il primo partito.

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