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Crisi M5s, Giuseppe Conte confuso: striglia Di Maio dandogli ragione. Peggio di così non poteva andare

Riccardo Mazzoni
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I Cinque Stelle non sono più il Movimento delle origini, ma un ircocervo in cui all'avventurismo rivoluzionario si è sovrapposta una guerra per fazioni, figlia di una evidente regressione politica, che ricalca usi e costumi di certi congressi di partito della Prima Repubblica aggiungendovi però anche i tratti grotteschi tipici delle maschere atellane che entravano in scena dopo le tragedie nell'antica Roma. E non si mischiano forse tragedia e farsa nell'ultima sceneggiata a cui è costretta ad assistere alla vigilia della risoluzione sul Consiglio europeo un'Italia stremata dagli effetti collaterali della guerra, dall'inflazione, dall'odioso dilemma fra libertà e aria condizionata, e ora perfino dalla siccità e dal Caronte africano in arrivo? Una premessa è però doverosa: il Paese dove quattro anni fa un elettore su quattro scelse di affidare il governo alla compagnia di giro allestita da Grillo sta vivendo una nemesi sacrosanta e meritata, ma sconta anche il fatto che questa fuga in massa dalla realtà sia coincisa con il periodo più terribile della vita repubblicana, segnato da una pandemia e da una guerra. Peggio non poteva andare, ma era comunque difficile immaginare che di fronte a un conflitto che sta ridisegnando gli assetti geopolitici il partito di maggioranza relativa consumasse un improprio congresso sulla pelle del Paese.

Anche in politica, che pure è la categoria dell'esistenza così prosaicamente descritta da Rino Formica, c'è un minimo etico sotto cui non sarebbe lecito scendere. Invece la lotta sorda per il controllo del Movimento, che covava da mesi, è esplosa tutta insieme, nel modo più sbagliato e nel momento più sbagliato, mentre Grillo - come le stelle di Cronin - stava a guardare, in meditazione tra l'Elevato e il Supremo. Era scritto che il duello Conte-Di Maio sarebbe stato il redde rationem di questa resistibile avventura politica, ma devono sbrigarsi a disputarlo, prima che il trend elettorale in discesa vertiginosa li costringa a fronteggiarsi in una cabina telefonica, come si diceva un tempo maliziosamente dei congressi liberali, che pure avevano tutt'altra nobiltà politica.

Conte, dunque: è l'uomo dei penultimatum, e davanti alla tentazione di liquidare Di Maio si è confermato tale: gli ha sventolato davanti un cartellino arancione, facendo diramare dal Consiglio Nazionale un lungo comunicato con cui ha di fatto sfiduciato il suo ministro degli Esteri - in mezzo a una guerra, vale la pena ricordarlo - senza però cacciarlo. E a suo sostegno è intervenuto improvvidamente anche il presidente della Camera, la terza carica dello Stato, con una sgrammaticatura istituzionale senza precedenti. Il documento, vergato in stile doroteo arcaico, contiene anche un altro penultimatum: quello per Mario Draghi.

Ma dopo la martellante campagna pseudo-pacifista, anche su questo punto cruciale Conte ha fatto un'evidente marcia indietro, derubricando la richiesta di voto parlamentare in caso di ulteriore invio di armi all'Ucraina a un più vago coinvolgimento delle Camere, sommato a un altrettanto vago impegno per la de-escalation militare.

Il vero colmo, però, è che il comunicato del gran consiglio grillino ha finito anche per sconfessare Conte e dare ragione a Di Maio, un capolavoro assoluto: che le ripetute e plateali sortite dell'ex premier contro le armi a Kiev abbiano infatti costituito una netta presa di distanza dalla linea euro-atlantica ortodossa, è dimostrato dagli elogi sperticati ricevuti dall'ineffabile ambasciatore russo Razov. Ed è altrettanto pacifico che Di Maio sia intervenuto per avvertirlo che questa deriva era pericolosa per il governo e per il Paese. Negare questo evidente sillogismo è solo il tentativo maldestro di rovesciare le colpe di Conte su Di Maio.

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