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Nella notte la Raggi cancella i murales di Cordaro e Moccia

I graffiti erano dedicati a due esponenti delle omonime famiglie criminali

Valeria Di Corrado (Photogallery Francesco Benvenuti)
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Armati di pennello hanno cancellato i murales che ricordano due membri di due note famiglie criminali di Tor Bella Monaca coinvolte in svariate indagini della Direzione distrettuale antimafia di Roma. Ieri notte, non appena le lancette dell'orologio hanno segnato l'una, l'apparente tranquillità del quartiere a est della Capitale (tristemente noto per lo spaccio a cielo aperto) è stata interrotta dall'arrivo massiccio di decine di agenti della polizia locale, coordinati dal comandante Antonio Di Maggio. Nel blitz sono state sbiancate le pareti di due edifici sui quali da 5 anni campeggiavano dei graffiti in ricordo di Serafino Cordaro, in una palazzina del complesso popolare R9 di via Paolo Ferdinando Quaglia, e di Giuseppe Moccia, sulla cinta stradale di via Amico Aspertini. Oltre alle pattuglie dei vigili, che hanno bloccato per circa un'ora l'accesso alle due strade, c'erano anche polizia e carabinieri: si temeva infatti una reazione di protesta da parte dei residenti, che fortunatamente non c'è stata. Nessuno si è affacciato alla finestra, a parte una signora che ha chiesto alla municipale di riavere indietro un cartellone affisso sul cancello in ricordo di Serafino Cordaro, crivellato di colpi fuori dal bar di cui era titolare, nella vicina via Acquaroni, nell'ambito di un regolamento di conti. Sul posto è arrivata anche Virginia Raggi. "Lo Stato sta iniziando a riappropriarsi di alcune zone di Roma - ha commentato la sindaca - Vogliamo dimostrare che le istituzioni sono presenti, che queste periferie non verranno più lasciate a loro stesse. C'era una parte della cittadinanza che aspettava questo da anni”. Il murales raffigurante il volto di Cordaro era salita agli onori delle cronache quando, lo scorso aprile, durante la presentazione del rapporto dell'Osservatorio regionale sulla criminalità organizzata nel Lazio, il procuratore aggiunto della Dda, Michele Prestipino, aveva fatto notare il “paradosso” di trovare la “celebrazione del prestigio criminale di un clan” proprio sul muro di un edificio di proprietà del Comune di Roma. “Serafino sei il nostro angelo”: recitava così la scritta coperta ieri notte dai vigili. Le indagini della magistratura hanno dimostrato che il clan romano dei Cordaro ha trasformato il comparto R9 di Tor Bella Monaca in un supermercato della droga. A ottobre si è concluso con una condanna a un totale di 209 anni di carcere il processo di primo grado, celebrato con il rito abbreviato, per 19 persone delle 37 finite in manette a luglio del 2016 con l'accusa di associazione a delinquere aggravata dall'uso di armi, traffico di sostanze stupefacenti e riciclaggio di denaro. L'organizzazione guidata dagli esponenti della famiglia Cordaro gestiva i turni degli spacciatori e delle vedette, controllava il bunker dove venivano nascosti cocaina, hashish e marijuana, utilizzando armi anche pesanti, come fucili kalashnikov. I proventi dello spaccio venivano poi riciclati acquistando bar e pizzerie sull'isola della Maddalena, in Sardegna. Oscurato dalla municipale anche il secondo graffito: "Tony vive", in ricordo di Antonio Moccia, figlio di Vincenzo, del clan camorristico originario di Afragola. Antonio è morto nel settembre del 2012, in un incidente stradale avvenuto proprio lungo i viali della borgata. I famigliari organizzarono un funerale regale, con tanto di carrozza, che però la Questura annullò. A dicembre scorso si è concluso il primo grado di giudizio per altri esponenti della famiglia campana trapiantata a Roma. Luigi Moccia è stato condannato, in abbreviato, a 4 anni di reclusione per intestazione fittizia di beni aggravata dal metodo mafioso. Per lo stesso reato, il giudice ha inflitto 2 anni al figlio Gennaro e al nipote Vincenzo Angelo Moccia. Le indagini del Gico della Guardia di Finanza e della Squadra Mobile hanno dimostrato che avevano creato una società che smerciava mozzarelle da servire nei ristoranti della Capitale, con lo scopo di sottrarre i beni di Luigi Moccia (già condannato in via definitiva per 416 bis) alla "mannaia" delle misure di prevenzione. Il cugino Roberto (rinviato a giudizio anche lui con l'aggravante dell'articolo 7), intercettato dagli investigatori, lo descrive come un vero e proprio boss: "Hanno fatto atteggiare la gente per 40 anni e ancora la fanno atteggià...compresi noi...perciò la gente gli deve solo portare rispetto e zitti". Nelle stesse conversazioni spiega che Luigi era riuscito ad accumulare "tanti soldi da non sapere dove metterli". E poi descrive nel dettaglio la bella vita che conduce a Roma: "Aveva una Ferrari parcheggiata sotto casa che poi ha venduto a 520 mila euro", "si è presentato da me con una grappa da 200 euro" e una sera "l'ho sentito che contrattava il prezzo di un albergo per 14-15 milioni di euro".

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