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Cristina Bowerman: "Nei miei piatti nulla è quello che sembra"

Paolo Zappitelli
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Quello che gli occhi vedono nel piatto non è mai quello che il palato si aspetta di assaporare. Cristina Bowerman la chiama «parte emozionale» della sua cucina, quella che non deve mai mancare. «Perché qualità e sapore - racconta - sono scontati e allora la cosa più importante diventa lo stile». Che non è tanto il modo di presentare un piatto ma soprattutto il dare forma - e gusto - diversi a quello che viene presentato. Una filosofia che la chef di Cerignola, approdata a Roma nel 2004 dopo un lungo periodo di lavoro e studio negli Stati Uniti, mette in tutte le sue creazioni nei due ristoranti Glass Hostaria a Trastevere e Romeochef&Baker a Testaccio. «La mia formazione arriva dalla tradizione ma poi inserisco un elemento di "disturbo" che crea appunto un'emozione». Il lavoro per arrivare ad avere sempre una qualità eccellente non è comunque semplice. Per questo ogni mattina Cristina Bowerman è al mercato Testaccio dove c'è anche un banco dove si possono assaggiare alcuni suoi piatti più semplici - come le polpette in bianco o rosse o le insalate nel periodo estivo - per acquistare dai suoi fornitori oppure per farsi venire un'ispirazione. «Non c'è niente di meglio del mercato per avere idee nuove - spiega - Vedo i prodotti sui banchi e immagino di associarli, di trovare "matrimoni" nuovi». Nel suo menu è sempre presente la carne di agnello. Passione o che altro? «Per essere attuale devi creare una linea di comunicazione con il cliente. Non voglio un prodotto senza connessione con il posto in cui mi trovo. E l'agnello a Roma rappresenta tutto questo, è nella storia gastronomica laziale». Partire dalla tradizione ma innovare completamente. Perché? «Perché non possiamo più proporre ricette della nonna, quelle che si facevano 20 anni fa, vanno alleggerite e preparate con tecniche nuove. La tradizione va protetta ma bisogna renderla attuale per farla apprezzare anche ai nostri figli. Altrimenti nessuno mangerà più le animelle, la lingua o il cuore». Prodotti difficili da proporre al grande pubblico... «Sì certo. È una sfida. Per esempio è da un po' che sto girando attorno a un piatto, voglio usare le cervella. Sto testando diversi tipi di cottura, ho provato a cuocerlo nel latte. Vediamo...» Scelta la materia prima come nasce poi il piatto? «Immagino come possono stare insieme gli ingredienti, quale tipo di cottura usare. La prima volta, per provarli, li metto giù a caso, anche se sono brutti a vedersi. Ma è proprio quello che voglio, perché devo concentrarmi sui sapori e non sull'aspetto estetico. Poi, una volta che lo introduco nel menu, l'impiattamento magari lo cambio ogni sera prima di trovare quello giusto». Lei ha detto di non essere una talebana del chilometro zero. Che vuol dire? «Per me l'importante è che un prodotto sia sano e eticamente sostenibile. Non mi interessa che venga da un posto vicino se poi magari è inondato da gas di scarico. Così come mi rifiuto di comprare un cocomero a 7 centesimi come mi è capitato di vedere. Ma il contadino come campa? È una piccola campagna che ogni consumatore dovrebbe fare».

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