I dati come oro: perché le imprese italiane puntano sulla “data economy”
Nel 2025 l’economia digitale italiana ha confermato la sua crescita anche in un contesto economico globale difficile. Le imprese di qualsiasi dimensione stanno accelerando gli investimenti nel digitale: non più solo infrastrutture o servizi online, ma una vera e propria trasformazione dei modelli di business attorno ai dati. In questo nuovo paradigma, le informazioni, comportamenti, preferenze, transazioni, tracce digitali, diventano un asset strategico, materia prima da elaborare, analizzare e trasformare in valore.
Questo approccio “data-driven” non riguarda soltanto le grandi multinazionali: anche le piccole e medie imprese (PMI) stanno iniziando a riconoscere il valore della raccolta dati e della sua analisi, adottando strumenti di intelligenza artificiale, automazione, machine learning per comprendere i clienti, ottimizzare processi, migliorare servizi o anticipare tendenze.
Il cambiamento non è superficiale: abbraccia ogni settore, dalla logistica al marketing, dalla finanza alla cultura. E soprattutto mette in discussione un vecchio modello economico basato su volume e materie prime: nel XXI secolo, l’oro non è più minerale, ma informazione.
Opportunità concrete e sfide normative
La nuova cornice regolamentare europea, con il recente Data Act, offre un’occasione storica per l’Italia. Da settembre 2025 entra in vigore una normativa che facilita la condivisione e l’utilizzo dei dati industriali, ridisegna le regole per la raccolta e l’accesso ai dati non personali, e promuove modelli di business più competitivi e trasparenti.
Per le imprese italiane questo significa potenzialmente minori barriere all’ingresso, maggiore interoperabilità tra settori, e la possibilità di costruire servizi innovativi a partire da dati reali: analisi predittive, nuovi prodotti, personalizzazione su larga scala. Molti imprenditori — secondo un recente studio condotto da Hewlett Packard Enterprise (HPE) — vedono il Data Act come un’opportunità per “posizionare l’Italia al centro della data economy europea”.
Ma la data economy porta con sé anche responsabilità e costi. La gestione dei dati richiede misure stringenti di sicurezza informatica, governance interna, conformità alle normative di privacy (come il GDPR) e un approccio etico all’utilizzo delle informazioni degli utenti. Bilanciare innovazione e tutela dei diritti non è semplice, specialmente per le realtà più piccole.
Questa tensione tra potenziale e regolamentazione è la vera sfida: riuscire a far emergere un sistema che valorizzi i dati come risorsa economica senza trasformarli in pericolo per la privacy, in un contesto dove fiducia e trasparenza diventano fattori competitivi essenziali.
Settori in prima linea e qualche sorpresa
Alcuni settori emergono oggi come protagonisti della data economy italiana: marketing, e-commerce, logistica, servizi digitali, salute, entertainment. In questi ambiti, elaborare e analizzare dati significa personalizzare l’offerta, migliorare la customer experience, anticipare la domanda.
Ma ci sono anche comparti meno “visibili” — settori di nicchia che sfruttano la data economy in modo intenso. Pensiamo al mondo del gioco e dell’intrattenimento digitale: piattaforme online, servizi di streaming interattivo, gaming su misura, tutto basato su algoritmi che analizzano comportamenti, preferenze e abitudini. Anche qui i dati diventano la materia prima di un sistema economico complesso e spesso molto redditizio. In questo contesto, le realtà regolamentate, comprese quelle che operano come casino online, mostrano come le potenzialità della data economy si estendano anche a segmenti tradizionalmente trascurati.
Ed è proprio la presenza di questi esempi “marginali” a dimostrare che la data economy non è solo per le grandi tech, ma può (e deve) rappresentare un’opportunità trasversale: per imprese nuove, settori alternativi, e modelli di business ibridi.
Se l’Italia saprà cogliere questa occasione
Il vero test per l’Italia non è semplicemente introdurre leggi o investire in infrastrutture. È dare vita a una cultura del dato — fatta di competenze, trasparenza, responsabilità. Vuol dire formare figure in grado di gestire dati in modo etico, progettare servizi “data-centrici”, garantire cybersecurity e fiducia.
Se questo accadrà, la data economy può diventare un pilastro della ripresa italiana: un motore di innovazione, occupazione e competitività globale. Potrà ridare fiato alle PMI, valorizzare settori ancora poco conosciuti, e trasformare l’informazione in una risorsa strategica per interi comparti produttivi. La posta in gioco è alta: non si tratta soltanto di cavalcare una moda, ma di costruire un’economia del futuro. Ed è nelle mani, anche delle nuove generazioni, la responsabilità di costruirla bene.
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