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Domani i 150 anni del processo di unificazione dell'Italia coincideranno con un episodio che ha fatto accapigliare gli storici ed esacerbato l'odio dei «lazzaroni» contro i Piemontesi, dei sudditi dei Borboni contro i Savoia invasori.

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LeCamicie Rosse di Nino Bixio dopo un processo sommario, fucilarono cinque uomini. Fu l'ultimo atto di disordini che avevano fatto 16 morti tra i civili. E che erano scaturiti dalla rivolta dei contadini del paese siciliano. Capeggiati da Nicola Lombardo, occuparono le terre dei latifondisti, volendo così accorciare i tempi delle promesse di Giuseppe Garibaldi: ripartire i poderi secondo giustizia. La ribellione delle «coppole» - i popolani - contro i «cappelli» - i grandi proprietari - montò tra la fine di luglio e i primi di agosto. I «comunali» o «comunisti», nel senso che difendevano gli interessi del Comune, distrussero edifici, commisero violenze. Ci furono sedici morti tra i civili, e poi l'invasione della Ducea di Nelson, proprietà della famiglia dell'ammiraglio inglese. Alla situazione incandescente mise mano Garibaldi. Inviò Nino Bixio che con un tribunale misto di guerra, e un processo durato meno di quattro ore, giudicò 150 persone e ne condannò alla fucilazione cinque, tra le quali Lombardo. La storiografia sudista, borbonica, fece di questi avvenimenti un chiodo per il j'accuse antigaribaldino. E per oltre cent'anni Bronte significò infamia sabauda, Unità d'Italia costruita sulla violenza e sul sangue. «La repressione si allargò a Niscemi e a Regalbuto. Bixio fece mattanza, eseguì solo lui 700 fucilazioni». Ecco la vulgata, peraltro suffragata da tante altre efferatezze compiute dai piemontesi nel processo di unificazione. Ma la vicenda dell'agosto 1860 va riletta. E non come fece, nel 1972, Florestano Vancini nel film «Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non raccontano» realizzato con la consulenza di Leonardo Sciascia. Ora di Bronte i libri di storia raccontano. E i giorni dell'eversione e del giudizio sono a lungo sceverati nei corsi e negli studi delle cattedre universitarie. Ma insomma, a Bronte chi aveva ragione, i garibaldini o le «coppole»? Dice Romano Ugolini, direttore dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano: «Il nocciolo della questione è la protesta inglese per l'occupazione dei terreni di Nelson. Ci fu una precisa richiesta britannica di ripristinare la legge e Garibaldi non potè esimersi dall'ubbidire. Il 20 luglio aveva vinto a stento a Milazzo, aveva il problema di superare lo Stretto. Non poteva tirare la corda con gli inglesi. Perché nell'epopea trionfalistica dell'impresa garibaldina non si tiene nel debito conto che la spedizione dei Mille fu una guerra. E che le Camicie Rosse, se pur diventarono poi diecimila, affrontavano l'esercito del Regno delle Due Sicilie. Entrando a Napoli, liquidando i Borboni, Garibaldi avrebbe mutato l'assetto europeo. Non poteva permettersi l'ostilità del Regno Unito. Stava facendo l'Italia. Le decisioni di Bixio, rapide, brutali, si spiegano in questo contesto. Era un militare, usò un tribunale militare per giudicare i capipopolo». Concorda lo storico Francesco Perfetti, ordinario di Storia Contemporanea alla Luiss: «Non si può condannare Nino Bixio. Garibaldi gli aveva chiesto di risolvere la crisi con gli inglesi. Ma a questa urgenza se ne aggiungeva un'altra, altrettanto se non più fondamentale. La rivolta aveva assunto una valenza sociale. Si colpivano i cosiddetti "galantuomini", i latifondisti. Erano stati incendiati il teatro, le case, l'archivio comunale. A Bronte era ormai caccia all'uomo, alla quale partecipavano anche delinquenti. Certo, ci furono violenze, arresti da parte dei garibaldini. Ma alla fin fine Bixio diede l'ordine di fucilare cinque persone, se pure dopo un processo spiccio. Le vittime causate degli insorti furono molte di più. Di questo non tiene conto la storiografia coeva, borbonica. Che ha ovviamente alterato i fatti».

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