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L'intelligence si fa con gli uomini sul terreno e non dietro un computer

Luigi Bisignani
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Caro direttore, per Giorgia Meloni quest’anno la notte di Halloween è arrivata in anticipo. Dapprima fuori casa con l’incubo del conflitto inaspettato in Medio Oriente e, qualche giorno dopo, in casa, con lo scherzetto di Striscia. Ma riflettiamo sul primo. Lo schiaffo subito dall’intelligence israeliana da parte di Hamas deve servire come monito alle boriose intelligence occidentali che si sono fatte trovare del tutto impreparate alla strage del 7 ottobre. Tra appunti, post-it e segnalazioni su tutto e tutti a riempire la sua scrivania, nessuna «nota» sul blitz di Hamas tantomeno sui fuorionda dell’ex partner. L’irritazione è stata grande, come il «serrate le file» ordinato forte e chiaro sui diversi fronti, interno e internazionale. Detto e fatto. Una nutrita delegazione del Copasir ha prontamente invaso con armi e bagagli i diversi uffici americani della Cia e del Pentagono per «aggiornamenti». E così pochi giorni fa, sempre il Copasir, aveva ricevuto il capo del Dis, Elisabetta Belloni e il direttore dell’Aise, Mario Parente, oggetto dell’incontro le informazioni provenienti da Washington su possibili infiltrazioni russe in Italia in vista delle elezioni europee.

Altro superlavoro per l’ambasciatrice Belloni che si va ad aggiungere alle discussioni sempre più animate con Alfredo Mantovano sottosegretario alla Presidenza e Autorità delegata per la sicurezza - in relazione alla riforma dell’intelligence. Forse anche sottraendo tempo prezioso alle azioni da compiere sul terreno dell’immigrazione e del terrorismo alla luce dei nuovi scenari di guerra in Europa e in Medio Oriente e di sicuro alimentando sproloqui tra i capi divisione che, sentendo le loro poltrone traballare, ormai non pensano ad altro.

 

 

Qualche settimana fa a Belloni è stato consegnato il Premio Francesco Cossiga per l’intelligence 2023. Chissà se il Picconatore, suo devoto ammiratore, avrebbe apprezzato la scelta di quest’ultima di ingaggiare centinaia di «esperti informatici» di belle speranze, tutti specializzati in cybersecurity, da lei ritenuti «componente qualificante del nostro lavoro», in larga parte reclutati on line. Peraltro, va sottolineato, la cybersecurity ormai è inglobata nell’Artificial Intelligence, che è il segmento da potenziare e studiare, nel civile e nel militare. Ma torniamo ai reclutati con competenze nei settori dell’algoritmica per la crittoanalisi, della fotointerpretazione di immagini satellitari e tecniche di machine learning per il riconoscimento biometrico. Belloni e i suoi mettono in questo modo da parte, un po’ troppo, l’addestramento di unità sul territorio, il famoso «fattore umano» che ha permesso, negli anni, di far diventare i nostri servizi - dai tempi del mitico colonnello Stefano Giovannone operativo a Beirut, citato anche nelle lettere di Aldo Moro - tra i primi al mondo in quello che le «barbe finte» definiscono «controspionaggio offensivo».

L’argomento è diventato scottante alla luce del libro «Le regole del gioco», che Alfredo Mantovano, senza mai nominare l’autore, ha messo all’indice tra i libri «che contengono un bel po’ di trash». L’innominato è l’ex dirigente del Dis Marco Mancini, salito agli onori delle cronache per essere stato fotografato con Matteo Renzi nel famoso autogrill di Fiano. Tuttavia, non va dimenticato che Mancini è stato, nel bene e nel male, un protagonista della nostra intelligence fin da quando, con il nickname di «tortellino», entrò a far parte, come carabiniere, nel nucleo storico del generale Carlo Alberto dalla Chiesa che smantellò le Brigate Rosse. Trasferitosi al Sismi del generale Nino Lugaresi negli anni della guerra fredda fino all’Aisi e al Dis, da dove è stato pilatescamente «congedato» nel 2021, proprio a causa della storia dell’autogrill e sulla quale il sottosegretario Mantovano ha apposto addirittura il sigillo del segreto di Stato. Dentro al libro di Mancini c’è un pezzo d’Italia, un «dietro le quinte» di memoria che riaffiora.

 

 

 

La serie di episodi che racconta sono ad alta tensione, come l’arresto, nel 2004, a Beirut, di Ahmad Mikati, capo di al-Qaeda in Libano e latitante da oltre dieci anni, mentre era in procinto di colpire, con 400 chili di esplosivo, l’ambasciata italiana nel paese dei cedri. Oppure le missioni in Iraq durante il governo Berlusconi per la liberazione degli ostaggi, non solo italiani e senza pagare riscatti. I tempi saranno anche cambiati, ma i metodi usati allora non erano poi così male e sicuramente producevano risultati. Scrive Mancini nel suo libro: «Se ritieni di interesse istituzionale un soggetto (e vuoi sapere chi incontra, dove lavora, quali sono le sue amicizie e frequentazioni) non puoi inviare sul campo solo personale di intelligence italiano. Gli agenti verrebbero scoperti e identificati nel giro di quattro minuti. Devi piazzare sulla scia del tuo uomo persone nate e cresciute sul posto. Ma prima devi reclutarle, lasciandole nel loro habitat. Poi istruirle alla raccolta clandestina di informazioni, e solo a quel punto impiegarle secondo le tue esigenze informative». In pratica, era questa la «rete», non si googolava sterilmente su internet da una scrivania né si navigava nel deep o dark web: c’era una intelligenza umana decisiva e, se la tua «spia» aveva bisogno, tu c’eri, non stavi dietro uno schermo e, alla bisogna, le pagavi l’affitto, le bollette e le spese mediche.

Nelle pagine del libro c’è anche un suggerimento per la Meloni, Mancini osserva che è tempo perso prendersela con «gli scafisti indisturbati» che guidano le carrette del mare e che, peraltro, il più delle volte vengono reclutati all’ultimo momento; piuttosto, occorrerebbe andare a individuare quelle cabine di regia dove occorre avere infiltrati, che vogliono creare il terrore in Europa con l’arma dell’immigrazione. Oggi gran parte dell’Africa, dove un tempo i servizi europei, con l’Italia in testa, avevano un ruolo, è invece in mano agli uomini della Wagner, dei turchi e dei cinesi. Credergli? Certamente almeno ascoltarlo anziché censurare il libro, con la conseguenza che, alla fine, non si fa che amplificarne l’effetto. «Damose da fa’...», diceva Wojtyla.

 

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