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Riforma del catasto con la brutta sorpresa: aumentano le tasse. Rischio stangata sulla casa

Filippo Caleri
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Le indiscrezioni sulle trattative per raggiungere un accordo tra centrodestra e governo sulla riforma del catasto parlano di un’insolita insistenza dei «Draghi boys», in particolare del capo di gabinetto della presidenza del consiglio, Antonio Funiciello, con la supervisione del meno boys (in termini anagrafici) Francesco Giavazzi, consigliere economico del presidente del Consiglio, per inserire nel testo finale la previsione dell’accostamento accanto alla rendita catastale di un altro valore, calcolato secondo i criteri del decreto 138 del 1998. Una pressione sospetta. Che induce qualche retro pensiero. Legittimo quando si parla del mattone, grande amore italico. Sì perché il Dpr 138 già oggi consente ai Comuni di procedere alla riassegnazione della rendita catastale (dunque del valore dell’immobile ai fini della tassazione) sulla base del mercato. Il suo utilizzo è previsto solo in una riga di testo, in un accordo che ha di fatto sancito la pace tra la componente di centrodestra del governo e Draghi. Lo stesso che non ha mai nascosto di voler portare a Bruxelles un documento che certifichi la volontà di Palazzo Chigi di seguire le indicazioni europee che chiede di spostare la tassazione dai redditi di lavoro a quelli prodotti dalle cose. Poche parole, dunque, che hanno evitato alla maggioranza di evitare una frattura insanabile, al centrodestra di annunciare lo stop all’aumento della tassazione sulla casa, e a Draghi di portare comunque uno scalpo all’Unione Europea. Una trattativa cosiddetta win-win nella quale, cioè, tutti hanno portato a casa un risultato. Ma come detto il diavolo sta nei dettagli.

 

 

E qui si torna all’insistenza dei Draghi boys di sanare il conflitto sul punto con l’obbligo della determinazione della seconda rendita. Che oggi sarà basata sui valori Omi, quelli cioè dell’Osservatorio del mercato immobiliare, che altro non è che la banca dati dell’Agenzia delle Entrate. Dunque di fatto nel 2026 quando partirà definitivamente la riforma del catasto che, nel frattempo, prevede l’attribuzione di una rendita a qualche milione di immobili fantasma sfuggiti finora alla catalogazione, si passerà a un sistema nel quale i Comuni avranno un sistema infallibile per colpire i furbetti che per la stratificazione storica dei dati continuano a pagare tasse, principalmente Imu e Tasi, legate a valori patrimoniali risibili. Gli strumenti previsti dal Decreto del presidente della Repubblica del 23 marzo 1998 sono infatti già pienamente operativi. Anzi, in alcuni casi, i municipi italiani negli anni scorsi hanno sanato le situazioni di evidente iniquità fiscale, soprattutto tra le aree dei centri storici rimaste ancorate a vecchi valori e le costruzioni nuove nelle periferie che in virtù dell’assegnazione più recente, spesso pagano in proporzione di più rispetto agli appartamenti di pregio più vetusti. Il grimaldello è l’articolo 5 del Dpr 13 che assegna il potere di rideterminare i valori immobiliari ai sindaci. In particolare viene consentita «la revisione delle tariffe d’estimo attualmente vigenti, facendo riferimento ai valori e ai redditi medi espressi dal mercato immobiliare». In quel tempo la banca dati Omi non era ancora pienamente operativa ma oggi è chiaro che il riferimento più accreditato per individuare i valori delle rendite sia proprio quello elaborato dal fisco. Morale della favola. Non ci sarà nessuna operazione di massa per rideterminare il valore del patrimonio immobiliare degli italiani. Ma nessuno può dormire sonni tranquilli.

 

 

Dal 2026, infatti, ogni sindaco potrà assegnare ai propri uffici del territorio una missione semplicissima: incrociare, per ogni unità immobiliare presente nel suo territorio, i due valori assegnati: la rendita catastale al valore storico e quella rielaborata tenendo contro delle quotazioni di mercato. Nulla esclude che, in caso di divergenza significativa, gli uffici possano attivare un procedimento per imporre l’innalzamento al proprietario dei valori catastali. All’inizio con la cosiddetta compliance fiscale, e cioè la richiesta di adesione spontanea, poi con un atto amministrativo classico, sicuramente impugnabile davanti alla giurisdizione tributaria. Ma a quel punto l’onere della prova ricadrà sul cittadino e le armi sin da ora sembrano già spuntate. Sarà difficile, ad esempio, dimostrare la legittimità di pagamenti irrisori su un piano terra (considerato al pari di un magazzino) riattato ad arte in una zona centralissima della Capitale. Non ci sarà più scampo. Anche perché tra qualche anno uno dei freni al potere di controllo dell’amministrazione, e cioè la scarsa capacità di dialogo delle banche dati pubbliche, sarà solo un ricordo. Il Pnrr destina alla digitalizzazione della Pubblica amministrazione una consistente parte di risorse. Non sarà insomma stangata sulla casa. Forse una stangatina. Quella che i Draghi e i suoi boys volevano portare come risultato a Bruxelles. Per ora hanno vinto tutti. Tra qualche anno a perdere saranno probabilmente una buona fetta di italiani.

 

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