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La lezione di Twain

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Mark Twain era convinto che fosse una diversità di opinioni a far correre i cavalli. Aveva perfettamente ragione: solo se uno è convinto che vincerà il cavallo bianco, mentre l'altro è favorevole al nero, la scommessa ha luogo e i cavalli dovranno correre. Se, invece, i due scommettitori hanno la stessa opinione, la scommessa non può avere luogo e i cavalli resteranno nella stalla. La battuta di Twain è in realtà un principio economico fondamentale e molto utile per comprendere quanto sta accadendo di questi tempi. Solo se il venditore è convinto che quanto gli offre il compratore vale più di quanto gli cede, e il compratore che quello che ottiene vale più di quanto gli costa lo scambio ha luogo. Se, invece, i due hanno la stessa valutazione, lo scambio non avviene. Nel mercato dei titoli vale lo stesso principio: perché uno possa vendere un altro deve comprare; il primo è convinto che il prezzo dell'azione sia destinato a scendere, l'altro a salire. Ma se entrambi credono che scenderà, cercheranno di vendere ma, in assenza di compratori (cioè di persone che non la pensano come loro), non potranno farlo, e il prezzo dell'azione diminuirà senza che abbia luogo alcuno scambio. Il calo delle borse di quasi tutto il mondo è la conseguenza del fatto che i pessimisti sono molto più numerosi degli ottimisti: la quantità di azioni offerte è superiore a quella domandata e il loro valore diminuisce. A questo punto, non credo di peccare di faziosità dicendo che Berlusconi non c'entra: sarà anche molto bravo ma non fino al punto di riuscire a condizionare i mercati azionari del mondo. Se questo è vero, non si vede quale problema verrebbe risolto dalle dimissioni di Berlusconi, conseguente crisi politica e varo di un non meglio specificato altro governo. È assai probabile, invece, che l'instabilità politica equivarrebbe a versare benzina sul fuoco del pessimismo. Quanto all'Italia, consentitemi di ripetermi, dato che non mi è riuscito finora di farmi capire. Primo: il debito privato è anche un credito privato, i privati in genere prendono a prestito da altri privati, come le banche. Secondo: il debito pubblico è un credito privato, sono stati privati ad acquistare i titoli del debito pubblico; questi acquirenti delle obbligazioni statali sono per il 55% italiani, per il 45% stranieri. L'Italia nel suo insieme, quindi, è debitrice verso soggetti (banche e altre istituzioni finanziarie, nonché privati) di Paesi terzi in misura pari al 45% del debito pubblico totale. Questo non significa affatto che non esista un grave problema di finanza pubblica, né che tutto vada bene, madama la marchesa, significa solo che le formiche private sono riuscite finora a finanziare gli sperperi delle pubbliche cicale. Ci si propone di inserire in Costituzione l'obbligo del pareggio del bilancio su base annuale. L'intento è certamente lodevole ma le conseguenze prevedibili non necessariamente lo sono. Diciamo anzitutto che il terzo comma dell'articolo 81 della Costituzione è stato introdotto proprio per imporre il pareggio del bilancio. È vero che la formulazione lascia margine a interpretazioni diverse - «Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte» - ma è anche vero che, come emerge chiarissimamente dagli atti dell'apposita sottocommissione dell'Assemblea Costituente, l'intento dei promotori del principio intendevano esattamente il suo significato. Sia Luigi Einaudi sia, ancora più esplicitamente, Ezio Vanoni, dissero che il loro scopo era quello di spingere a pareggiare il bilancio. Quel principio, anche grazie alle regole di Maastricht, è tornato di moda, ma per quasi mezzo secolo è stato disatteso. Un celebrato giurista, Valerio Onida, pubblicò nei primi anni Sessanta un poderoso volume: «Le leggi di spesa nella Costituzione». In esso Onida sosteneva che la Costituzione non imponeva affatto il pareggio del bilancio che oltre tutto era anche in contrasto con la «moderna teoria keynesiana». Quella pubblicazione spianò a Onida la strada per la cattedra universitaria prima, la Corte Costituzionale poi, per la sua presidenza infine! Un noto e stimabile governatore della Banca d'Italia nella Relazione sull'esercizio 1963 sostenne che il pareggio del bilancio era «principio arcaico». E fu così che il disavanzo annuo che era pari all'1,3% nel 1960, grazie a questi illuminati pareri e alle velleità dei primi governi di centrosinistra, prese a crescere rapidamente, contribuendo ad alimentare la crescita del debito pubblico. Quest'ultimo era pari al 54% del pil nel 1980, al 123% nel 1993. Tuttavia, l'introduzione di una articolo alla Costituzione che imponga esplicitamente il pareggio del bilancio su base annua potrebbe essere cosa utile ma solo ad una condizione. Intendo dire che fra una spesa pubblica pari al 30% del pil con un deficit del 5% ed una spesa del 60% del pil con bilancio in pareggio, preferirei di gran lunga la prima. Il pareggio è cosa buona se la spesa pubblica è ridotta ma se è ai livelli attuali (oltre il 51%) non lo è affatto. Il danno a noi privati non lo fa il modo in cui le spese sono finanziate, se con tasse o con debiti, ma il suo ammontare. Quanto maggiore è la spesa pubblica rispetto al reddito nazionale tanto minore sarà il nostro reddito disponibile. Se il settore pubblico si prende il 30% del reddito, a noi resta il 70%, se se ne prende il 51%, come fa oggi, a noi resta il 49%. Per questo ritengo che al principio del pareggio del bilancio dovrebbe essere abbinato un tetto alla pressione tributaria; se questi due principi venissero rispettati anche il livello delle spese sarebbe determinato. Se lo Stato preleva il 35% del Pil e deve pareggiare il bilancio, non può spendere più del 35%. Il tetto all'indebitamento che vige negli Usa non ha impedito che il debito pubblico continuasse a crescere anno dopo anno fino ai livelli stratosferici determinati dalle follie di Obama. L'unico risultato che abbia raggiunto è stato quello di coinvolgere l'opposizione nella responsabilità per la crescita del debito. Per evitare il default, la cui responsabilità verrebbe addebitata all'intransigenza dell'opposizione, questa finisce per accettare un compromesso che, se non assolve la maggioranza né tanto meno il presidente, la discredita agli occhi dell'opinione pubblica. I vincoli costituzionali sono importanti ma, come ci insegna Anthony de Jasay (forse il più grande filosofo politico vivente) «Con la chiave a portata di mano, la cintura di castità può solo ritardare l'inevitabile»!

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