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Ma il rating non è il Vangelo

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È inutile girarci intorno: il taglio dell'outlook dell'Italia deciso da Standard & Poor's, la seconda come importanza delle tre agenzie di rating dopo Moody's e prima di Fitch, è una botta per il governo. Anche per il momento in cui cade. In una situazione di incertezza politica tra i due turni delle amministrative, ed i mercati iper-sensibili in Europa, dove il default della Grecia appare sempre più all'ordine del giorno. La notizia nel week end, a borse chiuse, cosa che in altri tempi sarebbe accolta come un trattamento di riguardo, rischia di produrre effetti amplificati da qui a lunedì. Vedremo. Il giudizio di S&P, senza voler minimizzare, è articolato ma contraddittorio. L'agenzia ha infatti ridotto da stabile a negativo l'outlook, cioè la previsione sulla nostra economia, essenzialmente per due motivi: le deboli prospettive di crescita ed un possibile stallo politico («political gridlock»); però ha confermato il dato più sensibile, il rating sul debito che resta di A+. Così appare dovuta la prima reazione di Giulio Tremonti: che contesta l'analisi, «molto diversa da quelle espresse e confermate nei giorni scorsi dalle principali organizzazioni internazionali, Commissione europea, Fondo monetario, Ocse». Meno logico è il giudizio liquidatorio di due leader sindacali. «È un'agenzia screditata» dice Raffaele Bonanni della Cisl, «è un abbaglio» gli dà man forte Luigi Angeletti della Uil. E campata in aria è l'esultanza elettorale di Bersani e Di Pietro. «Berlusconi chiacchiera e Standard & Poor's decide» dichiara il primo: decide che cosa? «Si conferma lo stato disastroso dei nostri conti pubblici» afferma il leader dell'Idv: caso mai si dice il contrario, che troppo rigore frena la crescita. Il tanto peggio tanto meglio è duro a morire. Resta comunque il fatto, per il governo, che i problemi non si risolvono nascondendoli sotto i tappeti. Vediamo di capire meglio chiedendo ai lettori un po' di pazienza. Fino alla grande crisi l'opinione delle «three sister» del rating dettava legge, e poco importava che due facciano capo a colossi finanziari di Wall Street e la terza, Fitch, controllata dalla holding finanziaria francese Fimalac, abbia il quartier generale tra New York e Londra. Si tratta tipicamente della grande finanza che giudica se stessa, ma fino al 2008 tutti, anche i governi, sono stati al gioco. Il fallimento Lehman Brothers, cui fino all'immediata vigilia le tre agenzie attribuivano eccellenti pagelle, ha incrinato la credibilità del meccanismo. Così come i paesi a rischio: Irlanda e Spagna beneficiavano anch'esse della tripla A. Con la crisi dei debiti sovrani le istituzioni europee hanno agito come al solito scagliando anatemi a questi arbitri-giocatori, accusandoli di alimentare la speculazione. Ma, sempre come al solito, né la Ue né la Bce sono state in grado di trovare alternative. Il risultato è che ai giudizi delle tre agenzie se n'è aggiunto un quarto, ancora più insidioso perché totalmente in balìa dei fondi speculativi ed esentato da qualsiasi straccio di analisi: quello cosiddetto “implicito” dei Cds, i credit default swaps. Si tratta di certificati assicurativi per chi investe nei titoli a rischio: esattamente come le polizze furto a Napoli, più alto è il rischio più cari sono. Bene: basandoci sugli ultimi prezzi dei Cds di venerdì, quelli a cinque anni sulla Grecia costano 1.331 punti più che sulla Germania; quelli dell'Irlanda 635, del Portogallo 617, della Spagna 236. L'Italia ha i Cds a quota 146, poco più del Belgio: un'area di tranquillità, nonostante abbia un rating tuttora inferiore alla Spagna. Ad aprile scorso Standard & Poor's ha bastonato anche gli Usa, portando da stabile a negativo l'outlook sul debito, che si avvia a raggiungere il 100 per cento del Pil – poco meno che da noi – e ha superato il tetto di legge di 14.292 miliardi di dollari. Ma i relativi Cds sono bassissimi, perché dovrebbero attribuire un prezzo ad un rischio (il fallimento degli Stati Uniti) sul quale neppure Wall Street si sente di scommettere. Detto questo, bisogna aggiungere che l'analisi di Standard & Poor's contiene alcune scomode verità. Quando parla di «bassa crescita della produttività, limitata mobilità nel mercato del lavoro, costante erosione di competitività internazionale negli ultimi dieci anni», difficile darle torto. Altrettanto sull'osservazione di una «crescita economica potenzialmente più debole del previsto ed un possibile stallo politico, fattori che potrebbero contribuire ad uno slittamento del piano di riduzione del debito pubblico». Più problematico è interpretare il terzo e assai elaborato punto critico, riassumibile in questi termini: l'Italia ha bisogno di misure per la crescita, ma è limitata dai vincoli fiscali imposti dall'Europa. Grazie, lo sapevamo: ma che cosa suggeriscono i maghi di Wall Street? Tremonti risponde che i dati macroeconomici non sono cambiati rispetto a dicembre scorso, quando S&P emise un outlook stabile, il che è vero. Sottolinea la ripresa industriale appena confermata dagli ottimi dati Istat su produzione e ordinativi: vero solo in parte, perché è l'export, e non i consumi interni, a trainare le aziende. Difende le misure del decreto sviluppo, sulle quali è lecito sospendere il giudizio, e che comunque già secondo il governo dovrebbero essere seguite da provvedimenti di più ampia portata, a cominciare dalla riforma fiscale. Poi S&P si sofferma sulla produttività del mercato del lavoro – ecco che cosa ha fatto imbestialire i sindacati – dove ci pare che molto abbia dato il settore privato, mentre è piuttosto la macchina dello Stato ed essere al palo. E sono ritardi e liti tra amministrazioni pubbliche e gli infiniti rinvii ai vari Tar, Consiglio di Stato e altri colli di bottiglia a far fuggire gli investimenti e il lavoro. E qui la sinistra, tanto più vendoliana e dipietrista, ha poco da rivendicare. Anzi, su ciò che scrive Standard & Poor's dovrebbe dirla tutta memorizzando soprattutto questo passaggio: «Se il governo italiano riuscisse a raccogliere il sostegno politico per l'attuazione delle riforme strutturali, i rating potrebbero rimanere ai livelli attuali». Una sottolineatura che non sfugge a Tremonti. Il ministro definisce «da escludere in assoluto il rischio di paralisi politica». Ce lo auguriamo. Anche perché lui per primo non può più essere solo il guardiano dei conti; ormai è un player decisivo per il presente e futuro del centrodestra. Dunque, decida.

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