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L'economia reale non vuole polemiche

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Questo il balletto attorno al referendum sulla legge elettorale. Già ieri su queste colonne abbiamo sottolineato che il Paese ha al momento ben altre priorità, dalla crisi economica al disastro dell'Abruzzo, che non consentono «distrazioni» alla classe politica; e che la consultazione «è un lusso inutile, anzi dannoso» al Paese giacchè la legge elettorale in vigore, anche se non esente da difetti, funziona e garantendo un ampio premio di maggioranza alla coalizione vincente, mette al riparo il principio di governabilità del Paese. Ergo: meglio rinviare il referendum al prossimo anno e poi eliminarlo votando in Parlamento una riforma delle regole. Eppure questi ragionamenti sembrano non far breccia nel mondo politico anche se da quella Italia «del fare» alla quale spesso Berlusconi si richiama, arrivano ben altre sollecitazioni. Così mentre maggioranza e opposizione discutono se rinviare o meno, accorpare o no le date, il Paese va avanti dando una lezione di concretezza alla politica. Oltre Oceano si sta consumando un matrimonio, tra Fiat e Chrysler, decisivo per l'industria automobilistica e destinato a cambiare gli equilibri di mercato del settore a livello internazionale. Non solo. Questa volta il soggetto debole è quello straniero e il salvataggio viene effettuato da un gruppo, la Fiat, fino a qualche anno fa dato per spacciato. L'amministratore delegato Sergio Marchionne è candidato a diventare il numero uno anche della Chrysler dopo l'alleanza. Così mentre altrove in Europa si taglia, una nostra grande industria si lancia in una operazione estera forte di un prestigio ampiamente riconosciuto. E non è la sola. Le Generali sono il primo assicuratore in Cina, Eni, Enel e Finmeccanica stanno creando una rete di accordi internazionali e diversi organismi, riconoscono all'Italia una solidità ignorata fino a pochi anni fa. Anzi di più. L'Ocse, di solito avara di apprezzamenti, è arrivata a ventilare l'ipotesi che il nostro Paese possa essere il primo a sentire la ripresa e a fare da apripista al resto d'Europa. Tutto questo accade mentre la politica si avvita su se stessa nella questione delle date del referendum. La reattività dell'economia reale alla crisi è un messaggio chiaro ai partiti: fatti. Il che significa maggiore attenzione alle imprese e al mondo produttivo. Ieri c'è stato il solito teatrino. Franceschini ha detto che nessuno gli ha proposto di rinviare il referendum e che invece Maroni «mi ha contattato e mi ha proposto le date del 14 o del 21». Il rinvio «avrebbe un senso ma ci sono problemi di costituzionalità, servirebbe il consenso esplicito del comitato promotore». Poi è tornato sulla questione della spesa. «Il no all'election day è una responsabilità grave, grida vendetta». Immediata la replica del capogruppo al Senato Gasparri: «Le cifre che dà sono false. Fa solo demagogia». Lucio Malan, senatore del Pdl insiste sul rinvio che «avrebbe solo vantaggi e nessuno potrebbe sentirsi sconfitto». Ma Di Pietro rilancia: «Sul referendum il governo prima ha deciso, stabilendo che dovesse farsi il 21 giugno o l'anno prossimo, e solo dopo ha deciso di avviare le consultazioni».

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