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Mogol presenta la grande festa per Lucio Battisti

Appuntamento il 13 luglio al Teatro Romano di Ostia Antica. Sul palco anche Gianmarco Carroccia

Carlo Antini
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Quando si parla con Mogol passa davanti agli occhi la storia della musica italiana. Non solo Battisti ma Caterina Caselli, Dik Dik, Equipe 84, Fausto Leali, The Rokes, Bobby Solo, Little Tony, Mango, New Trolls e Cocciante. In carriera ha collaborato con tutti e venduto 500 milioni di dischi, regalando perle entrate nella cultura popolare. Oggi svela i retroscena del suo rapporto con Battisti e lancia strali contro i giganti del web che non pagano i diritti d’autore. La scuola che ha fondato in Umbria è il CET (Centro Europeo di Toscolano) e finora ha diplomato tremila giovani autori, musicisti e cantanti. La sua esperienza è stata esportata perfino all’Università di Berkeley. Mogol ha mille sogni e progetti per la musica e la televisione. E il prossimo 13 luglio lo vedremo sul palco del Teatro Romano di Ostia Antica nello spettacolo «Emozioni - Viaggio tra le canzoni di Mogol e Battisti» al fianco di Gianmarco Carroccia che interpreterà con l’orchestra un canzoniere infinito.

Mogol, come nasce l’idea di «Emozioni»?

«Gianmarco Carroccia è uno dei nostri allievi più bravi. È un sosia di Battisti anche se ha una voce leggermente più compatta. Durante lo spettacolo canterà anche mie canzoni scritte per altri. Con lui ogni show è sold out».

Dopo tanti anni il suo sodalizio artistico con Lucio Battisti continua ad attirare il pubblico. Qual era il vostro segreto?

«La novità di quelle canzoni è che siamo riusciti a coniugare la melodia napoletana con la ritmica anglosassone. Nei testi, invece, abbiamo acceso i riflettori sul tema della vita. Molte canzoni sono autobiografiche e questo per l’epoca era molto innovativo».

Nel privato che persona era Battisti?

«Ci sono stati tanti momenti di nervosismo ma, anche se può sembrare strano, nel privato era una persona paciosa. La popolarità la gestiva con difficoltà perché voleva proteggere costantemente la sua privacy. Io e Lucio eravamo complementari. Lui era un matematico, io no. Lui era un verticale, io un orizzontale».

Cosa ricorda di lui?

«Tante cose ma sicuramente il fatto che non gli piacevano i provini che registrava con la sua voce. A me, invece, piacevano tanto. Lui, però, si sentiva prima di tutto un autore e all’inizio non voleva cantare le sue canzoni. Io ho insistito e per fortuna alla fine l’ho convinto. Poi a un certo punto non mi ha dato più retta».

Com’è cambiata la musica italiana rispetto a quegli anni?

«Oggi le canzoni sono cambiate completamente. Col rap il cantato è diventato sempre più simile al parlato e i brani sono formati da tanti piccoli ritornelli. Senza dimenticare il ritorno potentissimo della musica sudamericana con la sua allegria e gioia di vivere. Ma oggi facciamo i conti con un forte gap tecnologico».

Quale sarebbe?

«La musica è ascoltata attraverso il web e quindi ha un pubblico prevalentemente giovane. Un tempo, invece, le canzoni le ascoltavano tutti. Oggi comanda Internet e fenomeni come Sfera Ebbasta sono pressoché sconosciuti agli adulti. Io ho scritto che la Rete serve a prendere i pesci. E non dobbiamo dimenticare che la democrazia esiste finché c’è meritocrazia».

Cosa si può fare per favorire il merito?

«Le rispondo raccontandole cosa ho fatto io. In Umbria ho aperto il CET (Centro Europeo di Toscolano) che finora ha diplomato quasi tremila ragazzi. Tra loro Amara, Giuseppe Anastasi e lo stesso Carroccia. È una scuola senza fini di lucro e di livello internazionale e siamo stati interpellati perfino dall’Università di Berkeley».

Nell’era dei talent show non le sembra che anche in televisione ci vorrebbe più spazio per i nuovi autori?

«Assolutamente sì. Per questo abbiamo in ballo un importante progetto con la Rai da realizzare a maggio. Si tratta dell’Università del pop, una specie di Woodstock di viale Mazzini in cui dare spazio alle migliori canzoni ascoltate al CET in questi anni di attività. I docenti della scuola stanno selezionando le 12-14 canzoni migliori che si contenderanno la vittoria finale. In questo modo proveremo ad alzare il livello della cultura popolare».

A proposito di Rai, negli ultimi giorni il suo nome è stato accostato a quello di direttore artistico del Festival di Sanremo 2020. Le piacerebbe l’idea?

«Non ne so nulla e dovrei saperlo io per primo sinceramente. Attualmente sono il presidente della Siae e devo mantenere un ruolo super partes».

Da presidente della Siae quali problemi ha dovuto affrontare?

«Innanzitutto che non si vendono più dischi. Ma forse ancora più grave è il fatto che le grandi piattaforme digitali non pagano i diritti d’autore. Nel resto d’Europa i Paesi sono favorevoli. In Italia, invece, si fa resistenza e non si recepiscono le direttive comunitarie. Non riesco a capirne le ragioni ma l’Italia ha votato contro il pagamento dei diritti».

Quali conseguenze provoca tutto questo?

«Che la tecnologia sta uccidendo la cultura. La Siae ha tutto il diritto di pretendere i diritti d’autore per poi ridistribuirli. È una piaga che riguarda non soltanto i musicisti ma tutti i creativi che sono fortemente penalizzati dalla mancanza di pagamenti. E tutto passa sotto silenzio. È una lotta impari e se qualcuno non ci aiuterà presto saremo costretti a soccombere. L’86 per cento degli italiani è favorevole alla direttiva sul diritto d’autore eppure il governo italiano sta opponendo resistenza. Ma presto si dovrà ricredere perché i creativi non campano più. Ormai la cultura è ridotta alla fame».

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