«Amici miei» quanta nostalgia
La supercazzola del Conte Mascetti metteva di buonumore Eppure erano gli anni bui del terrorismo e delle stragi
Non c'è dubbio, un Conte Mascetti ci serve come il pane. In questi anni tormentati e sofferti, dove la crisi economica ha causato uno sconquasso sociale "come una guerra". Anni bui, ora come allora. Come quel 1975, quando «Amici Miei» esordì nelle sale il 15 agosto, regia di Mario Monicelli su un lavoro incompiuto di Pietro Germi. Si era già nel pieno, anche se non allo zenith (che sarebbe giunto con l'omicidio Moro) dell'attacco mosso allo Stato dal terrorismo politico, e a quel 15 agosto buona parte delle mattanze della nostra storia recente si era già consumata: strage di Piazza Fontana (1969), strage di Piazza della Loggia (1974) e del treno Italicus (1974). Di lì a qualche mese, sarebbe toccato a Pier Paolo Pasolini fare una morte orribile, che con il terrorismo non c'entrava ma aggiungeva un mattone di dolore in un'epoca già ferita. E in cui il fumo delle ciminiere, il grigio scuro del piombo e il rovello dell'autocoscienza di un popolo impaurito e disorientato sarebbero stati fenduti dalla saetta dell'ironia di quell'allegra brigata cinematografica di scalmanati cinquantenni, che sintetizzarono nelle "zingarate" l'uscita di emergenza dai pesi di un gravoso quotidiano. Giorgio Perozzi (Philippe Noiret), giornalista spregiudicato e donnaiolo, in conflitto di "comunicabilità" con il figliolo morigerato e serioso; Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), architetto che fa a pugni con la propria solitudine sentimentale; Guido Necchi, (Duilio Del Prete) lavativo gestore di bar pronto ad abbandonare il bancone per unirsi alla compagnia e Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi) luminare della medicina affermato e annoiato. E poi, il Conte Raffaello "Lello Mascetti", interpretazione magistrale di Ugo Tognazzi. Concentrato di italianissimi stereotipi, capace di un camaleontismo che lo porta a vivere dieci o cento vite. Quella materiale di nobile decaduto che per campare non può prescindere dalla generosità altrui, e dall'altra parte quella del burlone che a cuor leggero si lancia in scherzi e nuove avventure. Disorienta con l'abilità della sua supercazzola, cioè l'eloquio rapidissimo e senza alcun significato che lascia imbambolati gli interlocutori. E seduce, ah eccome se seduce. Ha sedotto generazioni, in rispetto alla nostra puntuale e istintiva attrazione verso l'imbroglione o la poco di buono (vedere, nei film, gli amori di Melandri per capirlo). Perché «Amici Miei», in tutti i suoi tre atti (il terzo diretto da Nanni Loy), è una saga sull'amore, in fin dei conti. Come lo è ancor di più sull'amicizia, quella vera, cameratesca, pilastro di un microcosmo che ha le sue regole, e per questo in grado di muovere guerra al mondo con lo sberleffo e l'ironia. Prova ne è la famosa scena degli schiaffoni al treno in partenza (ceffoni veri mollati alle comparse, ha confessato Gastone Moschin in un'intervista) oppure l'altra, dei contadini abitanti di un paesello che vengono avvertiti dai malandrini compari di un progetto (ovviamente inesistente) per costruire un'autostrada che avrebbe dovuto passare proprio da lì. Burle, tutte, che affondano le radici nella tradizione fiorentina da Boccaccio in poi. E che il cui spirito ritroveremo anche in un altro capolavoro di Monicelli, «Il Marchese del Grillo». A testimonianza di una tradizione irriverente che non ha mai abbandonato il nostro popolo, avvolgendone la storia come un filo a molte spire. Per questo, proprio per questo, un conte Mascetti ci serve anche oggi, e una supercazzola, forse, sarà quella che ci salverà.
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