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D'Annunzio scopre la lingua madre

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«La leggenda del sordomuto» è stata scritta negli anni Trenta Nelle pagine riecheggia il ricordo del soggiorno in Guascogna

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L'opera,pubblicata nel 1936 (ma porta in calce la data 1930) e scritta in quell'amata lingua di «Francia la dolce» - così la chiamava il Vate - che lui aveva appreso in gioventù, appare adesso per la prima volta in italiano («Le dit du sourd et muet qui fut miraculé en l'an de grace 1266», a cura di Matteo Veronesi, Aragno, pp. 183, euro 12). Dando nuova occasione a un dibattito mai sopito: quanto c'è, nel d'Annunzio che scrive in lingua francese, di ispirazione genuina e quanto di artificiosa costruzione, all'insegna di un pur straordinario virtuosismo creativo? Ancora: il suo francese ha una sostanza, una legittimità linguistica e culturale? In sintesi: «esiste»? Nella sua introduzione, Matteo Veronesi non sfugge agli interrogativi, anzi li ripropone, partendo dall'affermazione di un critico illustre, Gianfranco Contini, che in modo «tranchant» decreta: «il francese dannunziano non esiste». Esso, infatti, si presenterebbe come «una sorta di lingua irreale, immaginaria, astratta, sognata, tale da abbracciare e mescolare disinvoltamente l'uso moderno con arcaismi pertinenti a diversi dialetti e a diverse fasi storiche del francese antico, dalle canzoni di gesta fino a Montaigne, dai trovatori a Brunetto Latini a Marie de France». Ma, ribatte Veronesi, il valore dell'operazione culturale dannunziana sta proprio qui, nel cosciente allontanamento da ogni codice preciso, «da ogni storico-filologica verosimiglianza, sino a divenire «luogo, o non luogo, spazio testuale cangiante, proteiforme ed utopico, dell'artificio, della lontananza, della sperimentazione stilistica esercitata, in piena libertà, dall'artefice peritissimo, e spinta fino ai limiti estremi dell'invenzione e della manipolazione». Tanto da far pensare, sia pure «con qualche cautela», al Gadda della «Cognizione» e delle «Meraviglie d'Italia», o addirittura al Joyce di «Finnegans Wake», «la cui contaminazione di strati, registi, lingue, codici è ovviamente ben più ardita e vorticosa». Pur non essendo d'accordo su quell'«ovviamente» che, a nostro avviso, suona come il solito, obbligato, compunto tributo ammirativo nei confronti dello scrittore irlandese, sottoscriviamo il giudizio in merito al Vate. Convinti come siamo che ad ostacolare una serena e argomentata riflessione sulle mille «voci» della sua arte e della sua vita-entrambi, ci si consenta l'aggettivo, «straripanti» - contribuisca un vizio di origine che scaturisce da una forma di oscuro «risentimento». Quello che colpisce chiunque insegua la «perfezione» e, in forza di questo, tenda a superarsi costantemente, arrivando a risultati in cui, (perché no?), le corde del «sublime» possono confondersi con quelle del «ridicolo». Ma dietro questo c'è pur sempre una sincera ansia di «pienezza». Tratto distintivo di d'Annunzio, e più che mai forse di quello «francese», la cui sfida per l'eccellenza si fonda sul desiderio di mettersi alla prova in una lingua che non sente come «altra», ma come «sua», al pari dell'italiano. Ed è proprio per questo che il fervoroso Artiere può lavorarci sopra, manipolandola come meglio crede: in quel territorio carico di suggestioni è a casa propria. Amava la Francia e la Francia lo amava e dunque lo accolse a braccia aperte, allorché il Poeta, in fuga dai creditori (ma lui li chiamava gli «usurieri») e con la sua «dimora filosofale», la Capponcina, posta sotto sequestro, vi trovò ricetto nel marzo del 1910, prima a Parigi, dove per cinque mesi, ammirato e venerato, si stordì di vita salottiera, poi nello chalet Saint-Dominique di Arcachon, cittadina della Guascogna, affacciata sull'Oceano Atlantico. Qui visse per quasi cinque anni prima di tornare in Italia, nel maggio del '15, ad esercitare il suo ruolo carismatico nelle tumultuanti piazze interventiste. Gli anni di esilio sono anche quelli dei grandi omaggi alla lingua francese, con «Le Martyre de Saint Sébastien», rappresentato a Parigi nel maggio del 1911, con musiche di Claude Debussy e l'interpretazione della danzatrice Ida Rubinstein, nei panni, mistico-eroico- erotici, del Santo; «La Pisanelle» (1913) musicata da Ildebrando Pizzetti e interpretata anch'essa dalla Rubinstein; «Le chèvrefeuille» (1913), una tragedia in tre atti in cui riecheggiano motivi della celeberrima «Fiaccola sotto il moggio», rappresentata otto anni prima. Quanto alla «Leggenda del sordomuto...», siamo di fronte a un frastagliato tessuto narrativo-evocativo, in cui si intrecciano varie dimensioni temporali e geografiche. Vi compare, infatti, il giovane Gabriele che viene iniziato dal filologo Ettore Monaci all'«amore sensuale della parola» e che incontra in Guglielmo Oberdan l'eroe esemplare. E vi si narrano le vicende di un «alter ego», un «chierico vagante», discepolo di Brunetto Latini (venerato maestro di Dante nonché celebratore nei «Livres dou Tresor», della forza conoscitiva e del valore civile del «Verbo»), che riacquista udito e parola, ascoltando il santo re Luigi, combatte come crociato nelle schiere di Guglielmo d'Oranges ed è protagonista di altri eventi tra il miracoloso, il magico e l'eroico. Tutto, poi, è segnato «da una specie di ritmo fatale, che segue il disegno di una melodia da svolgersi, di un'armonia da ampliarsi». Dunque, un d'Annunzio «ampliato».

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