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di Gino Agnese Il MAXXI che potrebbe essere commissariato, e la sua dirigenza che rifiuta l'accusa d'insufficienza, implicita nella motivazione dell'annunciato provvedimento.

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Labuffa storia, anch'essa tutta napoletana, di un bel tipo che, avendo allestito per suo capriccio una Civica Galleria in quel di Casoria, vede chiudersi le borse del pubblico sostegno: e allora, per trovar posto nei media butta nel fuoco un paio di quadri (che nessuno rimpiange, tanto meno l'autore). Questi eventi, tra i più recenti e clamorosi, destano qualche allarme ma non danno la misura di un declino in progress, che ci assicura il disprezzo delle generazioni a venire. Dietro, c'è l'affanno di tutto il sistema museale. Il quale, oltre la sua crisi d'identità (è divenuta controversa l'idea stessa di museo) sconta la stessa sorte della generalità delle pubbliche istituzioni culturali, minate da una politica multicolore e di vecchia data, ma oggi più evidente, che intende la cultura come ornamento di ciò che è veramente necessario. Tanto che i nostri governi - ricordiamo: i governi del paese che ha il maggiore patrimonio storico, artistico e archeologico del mondo - le hanno destinato una cifra di bilancio che anni fa era circa un terzo di quella francese e nettamente inferiore alla tedesca, all'inglese e alla spagnola. (Il Ministero Beni Culturali aveva uno scandaloso 0,19%: attualmente forse 0,11). Per dire di Roma, ecco tre casi. Quello di Palazzo Altemps, e della sua fantastica Collezione Ludovisi di statuaria romana, che mancante com'è da ogni promozione è senza visitatori: «sicché varrebbe chiuderlo», dice qualcuno. (Ma adeguata promozione sarebbe una fortuna anche per le altre tre sedi del Museo Nazionale Romano). C'è poi il caso della Biblioteca Nazionale Centrale, che per le riduzioni di bilancio è sempre più un lumicino fioco, al paragone della consorella parigina, la Bibliotheque Nationale de France, con dotazione finanziaria più di dieci volte maggiore. E non meno doloroso il caso della Quadriennale, che non farà la XIV edizione della sua storica esposizione a causa degli scriteriati tagli di bilancio del ministro Bondi, esanime vittima di Tremonti. Tornando ai musei, occorre notare che salvo alcuni - e spiccano gli Uffizi - risentono anche del «mostrismo», ovvero dell'intenso susseguirsi di mostre dal seduttivo appeal, dispendiosamente reclamizzate, benché spesso ricche di opere secondarie, se non di scarti. Ottocento e Novecento? Impressionisti in tutte le salse, ma non scherzano i secessionisti viennesi o il maudit Modigliani oppure i «macchiaioli». Così si realizzano vertiginose bigliettazioni, anche perché puoi vedere una mostra nel tempo di un film. Mentre il museo intimidisce, perché è politematico e chiede un'alta soglia di attenzione, e tempi lunghi. Quanto ai musei d'arte contemporanea, i più recenti, implicano tutt'altro discorso. Se di nuova costruzione, sono spesso opere di archistar più attenti a secondare il loro estro che la funzionalità d'una machine à éxposer. Diversamente dai musei tradizionali, spesso «nascono vuoti»: nel senso che, una volta ultimata l'ardita costruzione, si tratta poi di dotarla di opere. Siccome sorgono grazie al denaro pubblico (in Italia, nessun milionario s'infutura alla maniera di Guggenheim o del cardinale Scipione Borghese) la loro dotazione, come la loro attività, dovrebbe far capo a commissioni non solo autorevoli ma culturalmente diversificate al loro interno, poiché la contemporaneità ha letture diverse. Secondo alcuni, questo criterio non è stato fin qui osservato al MAXXI. Dove, bisogna convenirne, la gestione è difficile ed è ardua la presentazione delle mostre, dovendo questa fare i conti con il gigantismo dell'architettura di Zaha Hadid. Il Madre di Napoli, che rischia la chiusura, è un museo sui generis. Ha pochissime opere sue, mentre la gran parte della collezione è costituita da «pezzi» concessi in prestito o in comodato. Perciò si può dire che il Madre (Museo d'Arte Contemporanea Donna Regina) altro non è che un articolato, piacevole luogo d'esposizioni, costituito dalle sale di un antico fabbricato, ubicato nella Napoli greco-Romana, splendidamente restaurato. Ora speriamo che il Madre, istituzione regionale, non s'inabissi nel mare dei debiti e dei costi. Ma a una spesa come quella del passato la Regione Campania non può far fronte: per indisponibilità di bilancio ma anche perché questo museo, avviato nel 2007, ha ingoiato da allora miliardi di lire e milioni di euro e ora altri ne reclama, nella scena di una città aggredita come non mai dai bisogni primari. Per giunta, alla fama che hanno procurato al Madre le campagne mediatiche corrispose una deludente risposta di visite, dovuta a una politica espositiva lontana dalla cultura più diffusa. Il Madre lo volle Antonio Bassolino, già sindaco di Napoli (1993-2000) e poi presidente della Regione (2000-2010). Durò una dozzina d'anni la grande popolarità di questo politico dall'accento provinciale (è nativo di Afragòla) che nel PCI era entrato giovane, tenendosi più vicino al radicalismo di Ingrao che all'ala colloquiale di Amendola e Napolitano. Come Sindaco e come Governatore promosse eventi artistico-popolari di larga eco mediatica, in realtà elusivi della cruda condizione napoletana. Gli piaceva il contemporaneo, anche dentro casa. E Napoli, da decenni nelle mani d'una delle più rozze compagnie di politici che si possano immaginare, era l'unica grande città europea a non avere una Galleria per il contemporaneo. Bassolino scelse un management fiduciario e fu istituita una commissione altrettanto docile, con qualche nome di risonanza internazionale: ma le istituzioni culturali partenopee rimasero fuori la porta. Declinato Bassolino e passata di mano la Regione, è declinato anche il Madre. In un compianto spettacolare ma di nessun peso effettivo.

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