Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Con la crisi di valori ci si aggrappa al padre

default_image

La tendenzaDai mostri di Gavino Ledda alla venerazione di Zecchi e Verdone

  • a
  • a
  • a

Nonsempre, però, il quarto comandamento è stato rispettato. Nel cuore come nella vita, nella società come in letteratura. Dai tempi del padre mostro o padre padrone della prima metà del Novecento si è passati al padre nemico, criticato dalla contestazione sessantottina. Oggi viviamo nel tempo del riflusso: nel pubblico delle piazze come nel privato delle coscienze, la figura paterna è amica, assume contorni d'affetto, tenerezza e dolcezza. Come accade negli ultimi libri scritti da Stefano Zecchi, Carlo Verdone, Flavio Insinna e Arno Geiger. Se solo si pensa al «Padre padrone» di Gavino Ledda, è facile immaginare una realtà in cui il padre segue le logiche della vita pastorale, a scapito della crescita culturale dei propri figli. La società della provincia italiana è ancora lontana anni luce da seppur minimi bagliori di modernità. La mancanza di prospettiva è tale da rendere impraticabile qualsiasi tipo di difesa. Oppure la visione catastrofica del padre mostro che Svetlana Stalin attribuisce a suo padre. Nel '79 la figlia di Stalin diede alle stampe le sue memorie, in cui il dittatore comunista viene descritto in tutta la sua crudeltà e ferocia, causa di immani tragedie pubbliche e private. Svetlana descrive il padre come un mostro sanguinario: la sua follia spinse la madre al suicidio. Gli anni Sessanta rappresentano uno spartiacque senza precedenti. In una parte dell'allora pensiero dominante, il padre è l'autorità costituita, il nemico da abbattere per rovesciare il potere così com'è. La contestazione ha rigenerato i mostri che voleva abbattere, cristallizzandoli erroneamente in posizioni acriticamente inefficaci. Ma lo spirito del '68 è lontano. Relegato nella cantina polverosa delle rivoluzioni mancate. Oggi il padre e i suoi scrittori hanno cambiato rotta e rendono un omaggio affettuoso a una figura sempre contradditoria e dibattuta. Il padre ha cambiato pelle e mostra le sue tenerezze, il suo lato umano, la sua presenza nel cuore dei passaggi generazionali. Come nel libro di Arno Geiger «Il vecchio re nel suo esilio», edito da Bompiani. Il padre di Geiger è affetto da Alzheimer e la scoperta della malattia è l'occasione, l'ultima, per conoscerlo di nuovo, forse per la prima volta. Senza schermi e infingimenti, con un amore mai avvertito prima così forte, acceso dalla percezione di un lento abbandono. È l'occasione per riscoprire dettagli sepolti dell'infanzia e delle storie della propria famiglia, persino segreti, nascosti in un diario scritto e lasciato in una soffitta. È la possibilità di confrontarsi con i silenzi di un uomo e con le improvvise e fulminanti combinazioni di una mente che ha smesso di funzionare secondo i criteri correnti e che procede per conto proprio, per associazioni iperboliche ispirate da una logica tortuosa, labirintica ma vitale. «Il vecchio re nel suo esilio» è il confronto di un padre e un figlio, ma anche il confronto di un figlio con se stesso, con la propria capacità di comprendere oltre la comprensione razionale, di raccontare con le povere armi del linguaggio il mistero della vita, di amare senza rete e senza l'attesa di una risposta. Risposta che non arriva neppure nel libro di Flavio Insinna, «Neanche con un morso all'orecchio», in cui la morte del padre è l'evento che cambia il corso di un'esistenza. Quello che fa diventare grandi, fa decifrare il senso di una vita intera. Un percorso faticoso, raccontato senza sconti da Flavio Insinna, in un libro intimo e introspettivo. Rivolgendosi al padre in un corpo a corpo serrato, un mattatore della tv popolare illuminata dai grandi ascolti esplora il mondo in ombra dei sentimenti e del dolore, dei conflitti e dell'amore. E il padre di Flavio diviene padre nostro. Suo e di tutti, nel corpo vivo delle parole. Insinna è guidato da un ostinato e personale senso della morale, ereditato dalla figura paterna e da un'istintiva avversione per tutto ciò che sa di finto e di costruito. Ne nasce un racconto divertente e commovente. È il sentimento che guida anche la penna di Stefano Zecchi nel suo «Quando ci batteva forte il cuore». Nella funerea atmosfera dell'Istria del secondo dopoguerra, Sergio è un bambino di sei anni che scopre suo padre nel momento del pericolo e della sofferenza. Le angosce che turbano i sonni del piccolo Sergio trovano conferma quando improvvisamente il padre lo prende con sé per iniziare una lunga fuga verso Venezia: della madre Nives non ci sono notizie, la sola via di salvezza è fuggire. Comincia così un lungo e avventuroso cammino segnato da grandi stenti e sofferenze, durante il quale padre e figlio si ri-conosceranno e impareranno che la sola salvezza sta nell'essere uniti. Padre come riferimento morale, come ne «La casa sopra i portici» di Carlo Verdone. L'attore e regista romano racconta aneddoti e storie di vita di quella casa magica dove è cresciuto tra le grandi firme della settima arte. Verdone jr racconta che suo padre Mario, critico cinematografico e insegnante al Centro sperimentale di cinematografia, lo interrogava ma non volle mai favorirlo in alcun modo. Tanto che, una volta, il suo rigore morale costò perfino una bocciatura al giovane Carlo. Ecco, i padri come punti di riferimento morale. Forse è proprio qui che sta il segreto della rinascita della loro figura e della rivalutazione del loro ruolo nella società e nella famiglia. Padri come querce e baluardi morali. Proprio oggi che la società è in disfacimento. Proprio oggi che le vecchie ideologie del Novecento hanno segnato il passo e la fede cieca e incondizionata nel libero mercato sta dimostrando tutti i suoi limiti e le sue carenze. Proprio oggi che si sente davvero bisogno di avere un padre.

Dai blog