Sua Maestà da 60 anni Ma non vuole lasciare
Elisabetta II salì sul trono inglese nel 1952 Borsette, cappellini. E inossidabile carisma
Chissàse chiamareranno Età Elisabettiana Seconda (la prima era quella di Shakespeare, mica roba cheap!) le sei decadi e passa del trono di Elisabetta II. Perché questa regina con la borsetta è decisa a regnare finché vivrà. Lo ha detto chiaro e tondo ieri, sgombrando ogni ipotesi su eventuale abdicazione in favore non tanto dell'usurato Carlo, ma anche dell'aitante nipote William, che pure ha ridato freschezza a casa Windsor sposanto la radiosa commoner Katie Middleton. Elisabetta «benedice» ma continua per la sua strada, con la vita di sempre, amati cani e cavalli compresi. Un'icona capace di replicarsi dal 1952, quando, mentre era in Kenya col consorte Filippo, arrivò la notizia che il padre Giorgio VI era morto all'improvviso e che dunque le toccava, a 25 anni, prendere il suo posto. Il giorno prima, indomita, era salita su una palafitta per filmare un gruppo di elefanti inferociti. E durante il viaggio di ritorno a Londra fece scalo in Nord Africa per imbarcare un pacco con l'abito nero. Così scese impeccabile dall'aereo, mentre in fondo alla scaletta l'aspettava Winston Churchill. Il self control è una delle sue virtù. E dire che i Windsor ne hanno combinate parecchie. A partire dal gran rifiuto dello zio Edoardo VIII principe di Galles, stregato da Wally Simpson. E continuando con amori e bizze della sorella Margaret e i dispiaceri inflitti dai figli. Non uno che sia riuscito a quagliare un matrimonio inossidabile come il suo con quel caratteraccio di Filippo (che si è ripreso dal recente malanno e ieri festeggiava soft con lei i suoi 60 anni di principe consorte). Sopra tutti, la telenovela pruriginosa di Carlo e Camilla, il j'accuse al Palazzo di Lady D, la tragedia della sua morte. Il 1992, quando divorziano Anna e Andrea e Carlo si separa da Diana Spencer, e il 1997, con la funesta notte parigina squarciata sotto il ponte dell'Alma, ora sono meno pressanti nella memoria. E se il popolo inglese riepiloga l'Età di Elisabetta II, ci trova nel 1956 il processo di decolonizzazione dell'Africa e l'attacco di Gran Bretagna, Francia e Israele all'Egitto per il possesso del Canale di Suez. E rivede il 1982, quando Londra mostra i muscoli con Buenos Aires per il possesso delle Isole Falkland, territorio inglese pur lontanissimo dal Regno Unito. Ma l'annullamento delle distanze geografiche è nel dna di Elisabetta. È la sovrana che ha viaggiato di più, allontanandosi da Londra anche per sei mesi. E se l'Impero è diventato Commonwealth, la corona inglese domina ad Antigua, a Barbuda, in Nuova Zelanda, Australia, Nuova Guinea, Canada, Belize, Isole Salomone, Grenadine e via esotizzando. Ovunque, sotto i monsoni o il caldo tropicale, Elisabetta mantiene l'aplomb. Cappellini e velette con tinte confetto - giallo canarino, rosa, celeste - rigorosamente dello stesso colore dell'abito sono la sua cifra. Nessuna sa portare meglio di lei la borsetta a manico corto infilata nel braccio e le scarpe con un tacco ben piazzato. Nessuna si crea problemi a sfilarsele, le scarpe, e a mostrare i fantasmini di nylon sopra le calze, come ha fatto durante la visita a una moschea. Ha visto passare 12 premier e quello di ora, David Cameron, non era ancora nato quanto lei salì al trono. È il simbolo del Regno Unito e dell'unità della nazione. Sfugge al nazionalismo, ha virato un po' nel razzismo (ricordate Kipling e il Fardello dell'uomo bianco?) ma in virtù della discrezione e della equidistanza da ogni premier, laburista o conservatore che sia (compresa la poco amata Thatcher), conserva intatto il carisma. I Beatles le hanno dedicato «Her majesty», la ballata che chiude Abbey Road. Lei, amabilmente, li aveva fatti baronetti. God save the Queen.
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