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Guggenheim e l'arte diventò a stelle e strisce

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Iltrionfo di un museo e dell'arte made in U.S.A. Ecco la mostra «Il Guggenheim. L'avanguardia americana 1945-1980» approdata da oggi e fino al 6 maggio nelle sale del Palazzo delle Esposizioni e curata da Lauren Hinkson. Un evento illuminato da sessanta capolavori, scelti accuratamente. E visto che la fotografia, come diceva Roland Barthes, possiede la magia dell'istante emblematico ed irripetibile, nel catalogo della mostra ce n'è una che dice tutto: nel 1943, Peggy Guggenheim con i suoi cagnolini in braccio sta al fianco di Jackson Pollock e alle loro spalle campeggia il gigantesco Murale dipinto dal vulcanico artista per l'atrio della residenza newyorkese della nipote di Solomon R. Guggenheim. Una nuova storia comincia e il testimone dell'arte contemporanea passa dall'Europa agli U.S.A. La staffetta è però graduale e ha inizio negli anni Trenta, quando il ricchissimo industriale Solomon Guggenheim, consigliato dall'artista e teorica Hilla von Rebay, decide di creare una collezione d'arte al passo coi tempi. Guidato dalla sua confidente, visita lo studio di Kandinsky, si innamora della sua pittura e finisce col comprargli nel corso degli anni 150 opere. Il profeta russo dell'astrattismo diventa il cuore pulsante della nuova collezione. Nel 1937 viene creata la Solomon R.Guggenheim Foundation. Due anni dopo, nel '39, su consiglio della Rebay, nasce il Museum of Non-Objective Painting in alcuni locali presi in affitto a New York. Vi dominano Kandinsky e gli astrattisti europei. E doveva essere come un tempio destinato a promuovere l'armonia fra i popoli: i pavimenti erano ricoperti da una spessa moquette grigia mentre le sale erano pervase d'incenso e di musica classica. Stava però per arrivare un uragano di vitalità che avrebbe portato una ventata d'aria fresca. Nel 1941 torna a New York Peggy Guggenheim e l'anno dopo apre la galleria «Art of this Century» in cui avverrà l'incontro decisivo fra i grandi maestri europei rifugiatisi in America per sfuggire alla guerra (da Mondrian a Duchamp e a gran parte dei surrealisti) e i nuovi pittori americani, i futuri espressionisti astratti. Forse, senza la tranquillità economica garantita dal contratto con Peggy, Pollock non avrebbe trovato quel fragile equilibrio, per così dire, necessario a cambiare la storia dell'arte con l'invenzione del dripping, dello sgocciolamento su tele enormi poste a terra e diventate territorio di sfrenate danze pittoriche. Ed è proprio lui, anche in termini quantitativi, il protagonista della mostra al Palaexpò: da «The Moon Woman» (1942) ai magmatici Senza titolo e «ìCircumcision» del 1946, fino a «Green Silver» del 1949, a «ìNumber 18» (1950) e a «Ocean Greyness» del 1953. Accumulando amanti e capolavori, Peggy costituì una collezione eccezionale nella sua residenza di Venezia, confluita nel Guggenheim a partire dal 1976. Fra i pionieri che aprirono la strada alla nuova arte di Pollock, De Kooning (epicamente eroica è la sua «Composition» del 1955 in mostra) e Rothko (rappresentato, però, da tre opere non eccezionali), meritano attenzione il grandissimo Arshile Gorky, con un'opera del 1944 piena di bellezza e di tragedia e il poco noto ma straordinario Hans Hofmann. La frenesia vitalistica e drammatica dell'espressionismo astratto non era sostenibile al di là dei suoi protagonisti e così la pittura cercò nuovi equilibri formali con Morris Louis, Kenneth Noland, Frank Stella, con l'abbacinante ed immenso «Harran II» del 1967. Nel frattempo il Guggenheim aveva preso casa, dal 1959, nella nuova mitica sede progettata da Frank Lloyd Wright. Tutto stava però per cambiare, il tempo dell'eroismo bellico e post-bellico era finito da un pezzo, ecco il consumismo, ecco la Pop Art. Era stato proprio il nuovo direttore del Guggenheim, l'inglese Lawrence Alloway a coniare questa efficace definizione, perfetta per Warhol, in mostra con le sue agghiaccianti sedie elettriche arancioni, per Lichtenstein, per Rauschenberg, di cui si espone un lavoro epocale, «Chiatta» (1962-63), lungo dieci metri, come un barcone con il suo carico caotico di immagini-merci. È poi la volta del purismo essenziale dei minimalisti, da Donald Judd a Carl Andre, da Dan Flavin ad Agnes Martin, che ebbero un lungimirante collezionista nel conte Giuseppe Panza di Biumo, protagonista poi di una storica donazione di 380 opere proprio al Guggenheim. Negli anni settanta il trionfo dell'oggettività post-Pop Art si raggiunge con i Fotorealisti, meglio noti come Iperrealisti, che chiudono la mostra. Nel frattempo il Guggenheim ha instaurato un dominio quasi planetario: alle sedi di New York e di Venezia si sono aggiunte quelle di Bilbao e di Berlino mentre sono già stati avviati i lavori per il Guggenheim Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. Un nuovo futuro è alle porte.

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