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I giorni drammatici di Scampia sotto la cupola dei Di Lauro

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Uncolpo al cuore di “Gomorra”, decapitata dell'ultima delle sue teste dopo quella del boss Antonio Iovine. Eppure i titoli a tutta pagina sui quotidiani e le telecamere all'inseguimento del superlatitante è difficile che lascino intendere quante notti in bianco, quanti “guardarsi le spalle”, nervi a fior di pelle, fronti aggrottate significhino simili traguardi. Da qui la spinta a produrre quell'oggetto non bene identificato dei “docufiction”, i libri un po' verità, un po' romanzo, divenuti bestseller a partire dal caso del gazeter-scrittore Saviano. In effetti un ottimo baluardo all'indifferenza alle cifre e alle notizie sui morti ammazzati è proprio ricorrere all'espediente del racconto. Una narrazione avvincente dà corpo e sangue ai numeri, specie se condita con la giusta dose di pathos. Sensibilizza l'opinione pubblica sull'escalation di violenza, nonsense e orrore sottesa alle spente diciture riportate dalle agenzie o dagli atti d'indagine. Soprattutto, denuncia le realtà rassegnate ai padrini-padroni dello status quo. Come il mondo capovolto di Scampia, quartiere che ospita il più grande mercato della droga d'Europa e che ha fatto da teatro a una delle più sanguinose guerre tra clan camorristici, quella che oppose il clan del boss Paolo Di Lauro ai cosiddetti “scissionisti”. Una macchina della morte impazzita che tra il 2004 e il 2005 macina più di settanta vittime, e che purtroppo ancor oggi non può dirsi conclusa. “Faida di camorra” (Newton Compton 2009, pag. 282) è la ricostruzione romanzata sulla mattanza interna al clan di “Ciruzzo o'milionario” di Simone Di Meo, cronista di nera di lunga esperienza, già cimentatosi nel resoconto della carriera criminale del padrino di Secondigliano col suo precedente “L'impero della camorra”. Nella periferia est di Napoli vige uno scenario da terra di nessuno. Disoccupazione, omertà, siringhe sporche di sangue. Ragazzini che pur di non fare i quattrocchi all'università si fanno abbagliare dal soldo facile promesso dalla cupola camorrista. Eppure, trattasi di un caos ordinato. È la piramide di potere della famiglia Di Lauro, che ha in mano tutto il traffico di droga. Un'industria parallela, che schiva qualsiasi principio macroeconomico con la semplice liquidazione della concorrenza “manu militari”. A ogni quartiere la sua droga e i suoi capi-piazza di competenza. Se si verificano violazioni, è lotta armata. Come succede con gli "spagnoli", nome usato dagli affiliati “d'o'sistema” per indicare i fedelissimi al traditore Raffaele Amato, tornato dalla Spagna con una rete di narcotraffico alternativa a quella di via Cupa dell'Arco. Da ottobre 2004 scatta la follia. Omicidi a cadenza quasi quotidiana, continui attentati dinamitardi, la città nel panico, magistrati e forze dell'ordine impotenti davanti ai botta e risposta dei clan rivali. Che non si ammazzano solo tra di loro. Colpiscono i punti deboli: madri, fratelli, fidanzate. La spirale di sangue si ferma solo dopo una serie di operazioni e blitz decisivi, fino al fondamentale arresto il 16 settembre 2005 del superlatitante Paolo Di Lauro, che in qualche modo placa la faida. Un libro che è la prova che la narrativa sulla camorra non è monopolio di Saviano. Inutile nascondersi dietro a un dito. Tra le righe della faida di camorra, c'è la faida letteraria. Simone Di Meo è noto alle cronache non solo per i suoi romanzi, ma anche per la causa contro Saviano per presunto plagio, con tanto di richiesta di 500 milioni di risarcimento danni. L'autore ha riferito a “Il Giornale” che quando faceva il cronista a Cronache di Napoli Saviano era uno zelante freelance che, a furia di assumere pose amicali e strappare sorrisi, strappò a Di Meo anche parecchi particolari cronachistici e testimonianze dirette con cui infarcire “Gomorra”, senza poi citarlo come fonte o nei ringraziamenti. Arduo decidere se dietro alla recriminazione di Di Meo vi sia un piagnisteo risentito per mancata riconoscenza o una querelle sui confini del diritto d'autore. Fatto sta che l'anti-Saviano ha preferito poi ritirarsi dal processo, la causa è stata continuata dall'editore del giornale e il tribunale ha però dato ragione a Saviano. Oltretutto con il rovesciamento della frittata: l'editore è stato pure condannato per avere attinto a sua volta a brani di Saviano senza quotarlo. Morale della favola: alla tentazione di appropriarsi di fettine di lavoro altrui nell'era del copia-e-incolla cedono un po' tutti, vedi il filosofo “copione” Galimberti. Ma tant'è che Saviano intanto ha sbancato. Il suo “Gomorra” ha portato l'universo delle cosche malavitose sui comodini di tutti noi. E su di lui è avvenuto un singolare processo di beatificazione “antemortem”: plurinvitato alle trasmissioni, puntuale su Repubblica a ogni notizia su mafie&spazzatura (e non solo), ricorrente come un mantra: Saviano con gli indignados a Zuccotti Park, Saviano che litiga con Scotland Yard, Saviano qui, Saviano là, peggio del prezzemolo. Non è stato così per Simone Di Meo, rimasto un “semplice” giornalista. Come Rosaria Capacchione e Matilde Andolfo, due coraggiose semisconosciute. Della faida di Scampia Di Meo ci racconta le facce che ha incontrato, le strade che ha battuto, le logiche da capimafia che è riuscito a carpire. Una testimonianza vivente di un addetto ai lavori lontano dai riflettori ma che val la pena senz'altro di leggere.

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