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Morto Hitchens l'ateo polemista che odiava l'Islam

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Lo chiamavano l'Orwell del nostro tempo Il suo motto: «Ridere dell'autorità»

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Certoamava sbandierare il suo ateismo con spavalda intransigenza. Vedi le parole con cui tornò a ribadirlo in un'intervista al «Free Inquiry»: «Sono un ateo. Non sono neutrale rispetto alla religione, le sono ostile. Penso che essa sia un male, non solo una falsità. E non mi riferisco solo alla religione organizzata, ma al pensiero religioso in sé e per sé». Eppure, nella stessa veemente passione con cui soleva attaccare gli aspetti più allarmanti e gli effetti più perniciosi delle fedi religiose vibrava dopo tutto un sentimento religioso. Singolari indizi di questo sentimento denegato si possono cogliere in certe pagine del suo ultimo libro impegnativo, che essendo un compendio dei molti motivi del suo rifiuto della religione, potrebbe anche essere il più interessante dei suoi scritti. Intitolato «Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa», uscì nel 2007 e quell'anno stesso fu tradotto in Italia da Einaudi. Ma ora che lui se n'è andato conviene lasciare da parte la spinosa questione della sua miscredenza per onorare piuttosto l'indubbia importanza di quella che fu la principale battaglia intellettuale e politica della sua vita: la denuncia della codardia dell'Occidente di fronte alla minaccia del fondamentalismo islamico. A quella battaglia, dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, si votò con uno slancio e un fervore che lo portarono a entrare in conflitto con tutta tutta la sinistra «liberal» americana. Per capire la tempesta che allora dovette infuriare nel suo petto bisogna dunque tornare col ricordo alle tante invereconde espressioni con cui non poche importanti figure di quella gauche reagirono allo shock di quel terribile giorno. Occorre cioè ricordare la fatua mancanza di rispetto e devozione per la nostra civiltà, unita alla più assoluta assenza di quel sentimento tragico della vita che solo può aiutarci a percepire la vera natura della minaccia che incombe su di essa, che indusse sciami di rappresentanti della meglio cultura americana a vedere subito nel crollo delle Twin Towers una grandiosa occasione per tornare a confermare il loro rango di pitonesse morali della Grande Mela decretando che non bisognava accusare di viltà gli attentatori dell'11 settembre, giacché «i vigliacchi – come sul baratro ancora fumante di Ground Zero sentenziò quella pagliaccia di Susan Sontag – in realtà siamo noi». Di fronte a tanta indecenza intellettuale e morale egli dunque decise in cuor suo che non tutto è permesso. Forse senza avvedersi che quel suo rifiuto bastava a dimostrare che quel Dio in cui credeva di non credere non è affatto morto.

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