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Sora Anna

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L'ultima ostessa dell'Agro romano famosa nel mondo

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Stoa Santa Monica. Qui ce sta gente gajarda, gente de peso... Reggisti. Uno me pare se chiama Rili Scotch, un antro cià la barbetta bianca e l'ochialetti rotonni, un certo Spilimbergo». La Sora Anna è così: semplicemente verace. Appena si entra nella sua Osteria a San Cesareo, paese di 14 mila anime sulle colline romane, si viene travolti da un'atmosfera tutta familiare. Piccole stanze e pochi tavoli dove si respira quel calore tipico del salotto di casa propria. Questo è lo stile della Sora Anna: una donna semplice, sincera e spontanea. Una donna nata quando gli americani bombardavano la zona sud della Capitale per preparare lo sbarco degli alleati ad Anzio. Una donna forgiata da quarant'anni di lavoro tra la campagna e la macelleria dei genitori e da altri sedici passati nella cucina della sua Osteria. Più di cinquant'anni di sacrifici che l'hanno portata il 18 dicembre del 2009 a ricevere il più importante riconoscimento che «l'ultima ostessa della campagna romana» potesse ricevere per il suo impegno. Infatti il Comune di Roma ha voluto insignirla del titolo di ambasciatrice della Cucina Romana e Romanesca nel mondo. Quel mondo che fino al 1995 si fermava alla Francia e alla Spagna e che d'un tratto è diventato Austria, Belgio, Svizzera, Giappone, Hong Kong, Canada, Quatar e Stati Uniti. E lì l'incontro con Ridley Scott e Steven Spielberg (raccontato a modo suo in una telefonata al figlio Emilio Ferracci, ndr) che per lei non erano i grandi registi del cinema internazionale ma due ospiti ai quali preparare le prelibatezze della cucina romana. Quella cucina che, come racconta, «ha avuto successo perché è rimasta fedele alla storia». Ma è proprio nel momento in cui la Sora Anna cerca di spiegarsi il motivo di tanto successo che emerge la sua simpatia e modestia: «Tutti mi cercano forse perché sono, semplicemente, la Sora Anna, un'ostessa ex contadina e macellaia che da sempre tengo insieme con ostinazione e cuore questi tre bellissimi mestieri». E lo ha fatto mantenendo sempre fede a quella che è la sua regola aurea: «Io non sono un manager della ristorazione; non sono un architetto o un pittore del piatto; non sono micragnosa nelle porzioni (a Roma micragna significa penuria, avarizia). Quando ci si alza dalla mia tavola si è sazi e non bisogna cercare un altro ristorante nelle vicinanze o correre a casa per andare a mangiare. La cucina è per me un atto agricolo, l'ultimo passaggio della filiera dell'agricoltura e dell'allevamento». Poi l'importante per chi sta tra mestoli e padelle è avere «la mano felice, e quella o ce l'hai o niente. È come il coraggio di manzoniana memoria. Se uno non ce l'ha non se lo può dare». E con questo coraggio la cuoca-contadina-macellaia accoglie tutti i giorni i clienti all'Osteria di San Cesario sicura che chi si siede a quei tavoli sentirà come la sua cucina è interpretazione e non reinterpretazione della tradizione romano-laziale, perché quei fornelli la tradizione non l'hanno mai abbandonata. E per dirlo con le sue parole: «Si volete magnà bbene aritornate 'ndietro e usate i prodotti bboni».

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