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Non sparate sul cronista scrittore

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Ascorrere la lista dei romanzieri italiani premiati o bestselleristi, pare un must che facciano «anche» un altro mestiere. Fa figo, fa tendenza, fa marketing editoriale, ed evita sospetti di «raccomandazione»: a chiunque viene offerta una chance nel democratico campo dove si coltiva l'ansia della «fabula». Basta una penna e una risma di carta, qualche ettolitro di caffé per passare la nottata e via con il romanzo. Vale per tutti, tranne che per i giornalisti: come se sul biglietto da visita non ci fosse spazio per aggiungere «scrittore». Dalla Vetta d'Italia a Capo Miseno sopravvive il diffuso pregiudizio per cui chi scrive di realtà su quotidiani e periodici non abbia diritto ad aspirare a una vocazione narrativa. Un mood tristemente italiano, da provincia residuale, come se i cronisti fossero figli di un Dio minore, o vittime di un anatema della musa Clio. Altrove se ne fregano: quando Gertrude Stein sconsigliò a Hemingway di concentrarsi troppo sui romanzi, lui si ispirò ai suoi reportage di guerra e tirò fuori «Addio alle armi» e «Per chi suona la campana». Qui invece abbiamo avuto fior di giornalisti-scrittori: uno era Dante, re degli inviati speciali e scoopista divino. O De Amicis, che prima di "Cuore" aveva affollato le gazzette con i propri resoconti di viaggio. Salgari scriveva articoli su "L'Arena", e intanto sognava le tigri di Mompracem. Il Novecento ci ha regalato redattori che si chiamavano Svevo, Buzzati, Flaiano, Malaparte, Gadda. E naturalmente Montanelli, Fallaci, Biagi, Terzani, Barzini. Prima ancora, Collodi aveva scritto di satira su "Il Lampione", Matilde Serao aveva fondato "Il Mattino". Nel 2011 c'è chi si tura il naso di fronte a un collega che "osi" affrontare un incipit. Anche se lo fa dopo l'orario di lavoro: certi direttori, come è accaduto altrove, potrebbero comunque bacchettarli in nome «delle risorse da migliorare».

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