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Quel potere visto da lontano

lorenzetto

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Io darei la mia vita per il Papa. L'ho anche promesso a voce alta, in una piazza San Pietro deserta, la sera del 13 ottobre 2010. Ma non era quella la prima volta che lo pensavo. Pur essendo una donna d'intensa spiritualità, la moglie di Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, l'Istituto per le opere di religione noto anche come "la banca del Vaticano", mi ha guardato stupita. Il marito stava parlottando al telefonino dieci passi più indietro di noi. Non posseggo nemmeno un decimo della fede dei coniugi Gotti Tedeschi. Eppure, mentre uscivamo dall'Arco delle Campane e il colonnato del Bernini mi stringeva con un abbraccio troppo grande perché potessi sentirmi qualcuno o qualcosa, m'è salita alle labbra quella confessione estemporanea. La finestra dello studio di Benedetto XVI era illuminata. Considero il Papa la persona più importante che esista sulla faccia del pianeta. L'unica persona importante. Siccome sono un pover'uomo, mi auguro che il Vicario di Cristo goda sempre di ottima salute. (...) Dopo aver intervistato decine di luminari dell'oncologia, investigato sulle più controverse terapie antineoplastiche e visto morire di cancro molte persone care, mi sono posto l'angoscioso dilemma: che cosa farei, che protocollo di cura sceglierei, qualora venisse diagnosticato a me un tumore inoperabile? la chemioterapia? la radioterapia? gli anticorpi monoclonali? (...) L'unica risposta che ho saputo darmi l'ho riferita da tempo al mio amico Giovanni Maria Vian, direttore dell'Osservatore Romano: se mi ammalassi gravemente, promettimi che mi porterai con te in udienza per qualche minuto dal Santo Padre. "Predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni" (Matteo 10, 7-8). È il mestiere dei preti, guarire, anche se l'hanno dimenticato. A maggior ragione lo sarà del Papa. (...) Credo che il potere, quello vero, sia radioattivo. Meglio mantenersi a debita distanza, soprattutto quando fai un mestiere come il mio. Lo consigliava anche un autorevole columnist americano, Walter Lippmann, morto nel 1974, che dagli anni Trenta fino agli anni Sessanta commentò i fatti del giorno sull'Herald Tribune di New York: "Se vuoi essere un giornalista indipendente, non devi conoscere il presidente". L'ambizione della stragrande maggioranza dei miei colleghi si estrinseca nell'esatto contrario: se non conosci il presidente, vali meno di niente. (...) Nel mio piccolo ho sempre cercato di praticare la virtù opposta: vederli da lontano. Il più lontano possibile.(...) Poche settimane prima, in redazione, c'era stata un'avvisaglia illuminante del modo in cui molti titolati colleghi intendono la professione. Alle 11 di mattina, con fare carbonaro, aveva bussato alla porta del mio ufficio Flavia Podestà, inviata speciale della redazione economica, in seguito passata alla Stampa, dove fu stroncata prematuramente da un tumore ai polmoni nel 2004. Flavia amava ostentare una fitta ragnatela di influenti relazioni costruite nel corso degli anni. Solo che non si limitava a servirsene per svolgere al meglio il proprio lavoro. No, partecipava assiduamente e appassionatamente al risiko bancario e finanziario come se lei stessa fosse uno dei protagonisti in campo. (...) Se Flavia diceva "Marco", bisognava capire al volo che stava parlando di Tronchetti Provera. Se t'informava d'aver "sentito Giulio", era lapalissiano che s'era incontrata con Giulio Tremonti al numero 12 di via Crocifisso, sede dello studio legale e fiscale Vitali Romagnoli Piccardi e associati, dove l'ex docente di diritto tributario era tornato a lavorare dopo la breve esperienza da ministro delle Finanze nel primo governo Berlusconi. Vezzi innocenti da primadonna, che però le procuravano l'ostilità di molti colleghi, secondo i quali la sbandierata familiarità della giornalista con ministri, banchieri, imprenditori, economisti, manager e sindacalisti in molti casi andava considerata millantato credito. Non era affatto così, e la decisione dello studio Ambrosetti di intitolare "sala Flavia Podestà" l'auditorium di Villa d'Este, dove ogni anno i grandi dell'economia mondiale tengono la conferenza stampa finale del workshop settembrino di Cernobbio, dimostra che aveva ragione lei ed erano nel torto gli invidiosi. Flavia conosceva tutti, ma proprio tutti, i protagonisti dello scenario economico, a tal punto da potersi permettere di chiamarli non solo per nome, ma talvolta persino per soprannome ("il vecchio", "il chimico", "il cartolaio"). I grandi la temevano, e la corteggiavano in tutti i modi, nonostante avesse cessato da tempo di essere la fascinosa trentenne che arrivava al giornale inguainata dentro un paio di jeans attillatissimi. Sapendola molto sensibile agli omaggi floreali, le facevano recapitare in redazione mazzi di rose. (...) La Podestà sgusciò dunque dentro il mio ufficio con aria complice. E senza indugiare - non era certo tipo da preamboli - entrò subito in argomento: "Ti sto organizzando delle colazioni di lavoro in modo da farti conoscere i big di Milano e di Roma". Bisognava capirla: per lei, come mi avrebbe spiegato molti anni dopo il comune amico Luigi Cucchi, un invito a pranzo con un personaggio ragguardevole non era un momento professionale, ma soprattutto un'occasione per rafforzare la propria autostima. Quel giorno cascò male. Le risposi che dal mio punto di vista restava esemplare l'atteggiamento di un giornalista nato nella mia città, Silvio Bertoldi, che era stato capocronista dell'Arena prima di trasferirsi a Milano e diventare direttore di Epoca e della Domenica del Corriere nonché apprezzato storico e saggista. Un giorno un messo comunale aveva bussato alla porta del suo ufficio nella redazione dell'Arena, distante poche decine di metri dalla sede municipale di Verona, per un'ambasciata che a quei tempi, anni Cinquanta, poteva essere considerata routinaria in un quotidiano di provincia: "Il sindaco desidera vederla subito". Al che Bertoldi, senza scomporsi, aveva risposto al fattorino: "Riferisca al suo principale che quando il capocronista dell'Arena vorrà parlare col sindaco, sarò io ad andare da lui. Quando invece il signor sindaco vorrà conferire col capocronista dell'Arena, verrà lui da me. Buongiorno". Perciò ringraziai Flavia Podestà della premura, ma le dissi che poteva disdire immediatamente il giro conoscitivo che stava predisponendo: non avrei incontrato nessuno dei suoi prestigiosi compagni di merende. Ci restò malissimo e sono convinto che da quel momento mi abbia considerato unfit to lead, inadeguato a guidare. Il bello è che aveva perfettamente ragione.

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