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Il cuore socialista del totalitarismo

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Nel 1944, a guerra ancora in corso, Friedrich A. von Hayek pubblicò un volume dal titolo provocatorio: The road to serfdom ovvero, in italiano, La via della schiavitù. Il libro raggiunse tirature paragonabili solo a quelle del celebre 1984 di George Orwell. E proprio Orwell ne fu uno dei primi recensori sulle colonne di «The Observer». Per quanto Hayek fosse un economista già molto noto, al successo del libro contribuì il fatto di venir proposto in forma condensata ai lettori del «Reader's Digest», stimati allora in quattro milioni. Quel successo fu un handicap per la fortuna del volume in ambiente accademico. Molti studiosi lo liquidarono come un pamphlet mettendone in dubbio la portata scientifica. Apparso in Italia una prima volta nel 1948 una seconda volta, con una prefazione di Antonio Martino nel 1995, La via della schiavitù torna in libreria in una edizione rivista a cura di Raffaele De Mucci per i tipi della casa editrice Rubbettino. Che il libro avesse una valenza politica è certo. Lo dimostra la sua condanna dei tentativi di pianificazione sociale destinati a saldarsi con le tendenze illiberali e totalitarie. Tuttavia, al di là della dimensione polemica, La via della schiavitù rivela solidità di impostazione teorica e rigore metodologico che ne fanno un classico di teoria politica e di metodologia storiografica. Esso è il più approfondito contributo del pensiero liberale alla comprensione del fascismo e, più in generale, dei fenomeni totalitari. Per molto tempo l'interpretazione liberale dei totalitarismi è stata collegata, secondo la celebre espressione crociana, alla «malattia morale» che avrebbe colpito l'Europa determinando uno smarrimento della coscienza e una depressione civile. Hayek prende posizione contro questo discorso sostenendo che è sbagliato considerare il fascismo «una mera rivolta contro la ragione» o «un movimento irrazionale senza retroterra intellettuale»: le dottrine fasciste costituiscono «il compimento di una lunga evoluzione di pensiero», si sviluppano «con ferrea coerenza» e si traducono in «una forma di collettivismo depurato di ogni traccia di tradizione individualistica che possa essergli di ostacolo». Sotto il profilo storiografico, il discorso di von Hayek ha una importanza analoga a quella dei lavori di studiosi che hanno sviluppato la tesi che fascismo e fascismi debbano essere, al pari del comunismo, inquadrati e studiati come manifestazioni paradigmatiche del più ampio fenomeno totalitario. L'attenzione di von Hayek alla storia non è casuale. Discende dal suo interesse per le scienze sociali e ha, come punti di riferimento intellettuale, storici e pensatori, estranei allo storicismo idealistico, che hanno indagato le modalità di sviluppo della libertà intellettuale e politica, da Tocqueville a lord Acton, da Fisher a Talmon, da Elie Halévy a von Mises e a Popper. Nella sua interpretazione del totalitarismo egli prende le mosse dal significato del conflitto mondiale. Questo aveva messo in crisi la civiltà europea, la cui storia si era svolta all'insegna della libertà economica, premessa della libertà personale e politica, e dello sviluppo del commercio, fattore essenziale per il passaggio da un sistema gerarchico organizzato a un sistema fondato sulla libertà di scelta e di intrapresa: una lunga storia, svoltasi, dall'età rinascimentale e persino dall'antichità classica, all'insegna dell'individualismo. Il socialismo comportò una deviazione da questa direttrice e l'imbocco della strada che porta alla schiavitù. Per von Hayek i regimi totalitari sono una sorta di contro-Rinascimento frutto di pulsioni anti-individualiste e socialiste: «la nascita del fascismo e del nazismo non fu una reazione contro le tendenze socialiste, quanto piuttosto un esito necessario di quelle tendenze». E non sono casuali «le somiglianze di molti tratti ripugnanti all'interno dei regimi della Russia comunista e della Germania nazionalsocialista». Nel riconoscimento della comune sostanza socialista dei regimi totalitari, sta il punto centrale dell'interpretazione di von Hayek. Il quale, a riprova delle sue tesi, richiama la storia intellettuale di molti capi nazisti e fascisti facendo vedere come, a cominciare da Mussolini, essi provenissero dalle file del socialismo o del sindacalismo rivoluzionario, cioè, in definitiva, dai lidi del marxismo. Importante per capire la fenomenologia del totalitarismo dell'età contemporanea, il suggestivo approccio interpretativo di impostazione liberale di von Hayek non è da vedersi solo come un canone storiografico ma piuttosto, e forse più, come un'analisi che porta in sé una esortazione morale, un invito a non cedere a troppo facili lusinghe e a non abbandonare i sentieri, faticosi e impervi che siano, della libertà per imboccare la strada della schiavitù.

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